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28 juin 2011 2 28 /06 /juin /2011 09:33

Emina Ristović è serba  e trentina d’adozione. Laureata in Scienze Diplomatiche e con un master in Studi Est-Europei, alla politica ha preferito la letteratura. Nel 2009 ha pubblicato in Serbia il suo primo romanzo: “Il virus Balcanico” (Balkanski virus).

 

Sto ascoltando una musica che mi sta avvolgendo nel suo abbraccio tenero e mi fa partire, tornare indietro nel tempo. Come se mi stesse invitando a chiudere gli occhi e a lasciarmi andare, a rilassarmi. Potrei facilmente addormentarmi, mettermi a sognare quei tempi magnifici che ormai sono finiti nel fondo del cuore dove custodisco gelosamente i miei ricordi.  Mi sento al sicuro, coccolata da quei sentimenti provati una volta, da quella felicità provata in certe occasioni e mai più ritrovata.  Mi sento a mio agio, tranquilla, è come se quel viaggio indietro nel tempo mi stesse aspettando per farmi ritrovare il sorriso perduto in questi ultimi mesi tanto duri che ora vorrei dimenticare, lasciare alle spalle per non ritrovarli mai più. Un viaggio è sempre una partenza, un nuovo inizio. Un viaggio che potrà ricordarmi quello che ero prima di perdermi per le viuzze della vita, quelle stradine strette,  strette che non ti fanno trovare la strada verso casa, verso quell’oasi della felicità, dell’amore, della famiglia e dell’amicizia. Non posso fare altro che lasciarmi andare, partire per ritrovare me stessa e quella ragazza spensierata che ho fatto uccidere in questi ultimi mesi, anni. Uno, due, tre..il fischio! Il treno dei ricordi sta per partire e mi porterà via con sé.

Da sempre ero affascinata dai viaggi, dai luoghi lontani che volevo visitare un giorno. Dicevano che sembrava fossi nata in una macchina. Ogni volta che partivamo io ero felice. Non contava il posto dove andavamo, né il perché di quei viaggi lunghi o brevi, bastava muoversi. Mi accontentavo di vedere dei paesaggi dal finestrino, vedere segnali stradali che mi affascinavano, volevo sempre sapere il loro significato, come se già in quegli anni volessi prendere la patente! Ignoravo che quei viaggi mi portavano in qualche ospedale, o da qualche guaritore che avrebbe potuto farmi camminare di nuovo. Non ero cosciente allora di essere una bambina diversa, una bambina chiacchierona e troppo curiosa, però sempre una bambina diversa che non poteva camminare. Una bambina che non si rendeva conto della sofferenza che portava dentro, dell’odio sfrenato che provava per gli ospedali in cui era stata per la maggior parte della sua infanzia e per quella città bianca in cui doveva stare per forza.  Una bambina che si sentiva tanto sola nella città nella quale era nata, che piangeva di nascosto per le prese in giro degli altri bambini che la vedevano diversa perché camminava male. Finalmente iniziai a fare i primi passi da sola all’età di 4 anni. Ero una bambina che amava i libri; erano il suo mondo, la sua vita, la sua felicità. Ero una bambina che nello scrivere aveva scoperto un piacere immenso, felice quando vinceva i primi premi alla scuola media, pero’ una bambina che non conosceva la felicità. Una bambina che quando era piccola aveva perso il fratellino, quel bimbo mai nato che lei sognava di chiamare Marco e che è anche oggi, quando la bambina è una donna adulta, il suo angelo custode che la protegge da lassù. Una bambina che ignorava molte cose su di se’ perché così era più facile, isolarsi da tutto e da tutti, pensando che quel mondo era fatto apposta per lei. Un mondo fatto di silenzi, di parole scritte, di domande che non avevano risposte precise. O forse una bambina che non aveva alcuna voglia di trovarle. Un mondo fatto di sogni, di viaggi che un giorno avrebbe fatto, di lingue che avrebbe imparato. Un mondo che era dentro di lei ed anche fuori, un giorno lo avrebbe toccato con le sue dita.

Quando avevo 15 anni, per la prima volta ebbi il coraggio di dire basta, di fermare le paure che si erano insediate dentro di me, di partire nonostante il parere contrario di mia madre che da sempre mi aveva iper protetta. Mi trasferii a Sremski Karlovci, vicino a Novi Sad, dove feci il liceo linguistico. Là, il mio mondo si era aperto per la prima volta. Era come se avessi scoperto una dimensione diversa della vita. Tutto quello che nella mia città natale mi bloccava, là spariva, come per magia.  I ragazzi della classe che frequentavo mi avevano presa come una di loro, non mi avevano mai fatto capire che sapevano della mia “diversità”. Io ero una ragazzina chiusa, che fino a quel punto viveva in un mondo tutto suo, diffidando di tutto e di tutti.  Qualcosa iniziò a cambiare già allora. Ero circondata per la prima volta da amici veri che mi accettavano per quella che ero, e questo non era poco. Lì avevo conosciuto quattro ragazze, Ljilja, Katarina, Lela e Ceca, che ancor oggi sono le mie più care amiche, senza le quali la mia vita davvero non avrebbe il significato che ha oggi. Mi hanno insegnato a volermi bene, a credere in me stessa, e che i sogni si possono realizzare. Non mi hanno abbandonato neanche quando avevo preso la decisione di continuare gli studi all’estero. Mentre molti mi credevano pazza perché andavo a fare l’università in Italia, da dove nel ’99 il nostro Paese fu bombardato, loro mi hanno dato tutto l’appoggio necessario. A volte mi capita di rileggere le vecchie lettere che mi scrivevano, e mi commuovo. Mi ricordo come ero prima di quel periodo liceale, prima che la vita me le aveva messe sulla strada, e mi spavento perché quella ragazzina io la odiavo e non vorrei mai ritrovarla. Mi sorrido perché quelle liceali, che mi scrivevano quelle lettere piene d’amore, tutt’ora sono accanto a me, anche se non viviamo nello stesso paese e ci vediamo raramente. Loro mi hanno cambiata, amata e appoggiata sempre, e non è sufficiente una vita intera per dire a loro quanto io sia grata a loro per tutto.

Dopo il liceo, ho iniziato il mio viaggio verso quel mondo tanto desiderato e sognato. Mi sono trasferita in Italia, in una città che oggi per me è una vera casa, Trento. Ci ho vissuto poco però, almeno fino a due anni fa, perché studiavo in altre città: Gorizia, prima, e poi Forlì dove feci il master. Mi ricordo il primo giorno come se fosse ieri. Ero arrivata con una ferita al piede, mi ero operata a Belgrado quando avevo 12 anni, e stavo tanto male quasi da svenire. Mi ricordo una voce femminile che mi offriva una caramella che rifiutai. Ero terrorizzata perché non conoscevo nessuno, ma piano piano, le cose cambiarono. Durante quegli anni avevo conosciuto tante persone e ognuna di loro mi aveva dato qualcosa. Mi hanno dato tante di quelle emozioni che non dimenticherò mai. Là, in quel convitto in cui stavo, ho conosciuto delle ragazze straordinarie come Fabiola, Clara e Alessandra, che porto sempre nel cuore. Tra quei banchi dell’aula ho lasciato i miei pensieri, i miei ricordi, me stessa, i primi scritti del mio libro. Tra le mura di una casa dello studente in via Mazzini sono rimaste le risate di Zsuzsanna, le chiacchiere che facevo con Piermario, il mio più caro amico e una specie di fratello che a volte mi controllava come ero vestita prima di uscire e con il quale spesso litigavo su chi avrebbe pagato il caffè nel bar di Gedhaffi (almeno gli somigliava). In quella città sul confine con la Slovenia sono rimaste tante emozioni, troppi ricordi, belli o brutti, ma sempre ricordi.  Ricordi di un periodo che mi ha reso una persona migliore.  Però ora è arrivato il momento di svegliare quella bimba, di farle ricordare quanto la vita sia bella anche quando tutto sembra nero, che ci sono opportunità che non vanno perse per nulla al mondo. Di farle capire che le paure con le quali di nuovo aveva costruito un castello in cui nascondersi devono cessare di esistere. La vita è troppo bella per essere persa in chiacchiere inutili, in depressioni createsi dal nulla. 

Ad  un tratto mi svegliai e capii: la bimba non c’è più, quella bimba  che sognava un mondo che ha trovato, ma anche cercato di distruggere. La bimba è cresciuta. La bimba fra qualche settimana compierà 31 anni. Non potrò dimenticarla, né vorrei farlo. Vorrei solo che smettesse di condizionare la mia vita, le mie scelte, anche se per sempre sarà parte di esse, e di quel passato con il quale convivo e convivrò finché sarò viva.

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23 mars 2011 3 23 /03 /mars /2011 12:48

Bastano pochi giorni nel Sud della Tunisia per avere un’idea di come le economie di qua e di la’ della frontiera siano complementari. Ho scritto queste righe recuperando miei appunti a margine di una missione di lavoro in quell’area, autunno 2008, giusto pochi giorni dopo la chiusura del mese di Ramadan. Non ci sono tornato, ma credo che siano attuali e possano essere utili per capire qualcosa di quanto sta succedendo ora, a Marzo del 2011. In Tunisia ci sono autostrade, ma sono tutte nel Nord, soprattutto attorno alla capitale e all’interno della sua banlieue. Ma le strade nazionali sono larghe e abbastanza ben tenute, meglio che in tanti angoli d’Europa. Ed e’ su una strada nazionale che mi trovo, sto andando da Djerba a Medenine, Tunisia meridionale, paesaggio dominato da olivi che a giudicare dalle dimensioni devono essere stati piantati di recente. La Libia e’ vicina, ed i segni che lo dimostrano sono molti. Per esempio fra gli autotreni ci sono piu’ Iveco che Renault e quando ti ci avvicini vedi che non hanno la targa tunisina. Ad una stazione di servizio ne sono parcheggiati molti, non e’ per fare il pieno che si sono fermati, ma per mangiare minestra e merguez. Seduto a bere un te’ non riesco a trattenere la mia curiosita’ ed abbordo un camionista, evidentemente libico perche’ non parla una parola di francese. Il padrone del caffe’-ristorante mi aiuta a tradurre dal francese all’arabo. Il camionista, che viene dal Nord e viaggia verso la frontiera (direzione opposta alla mia), mi dice che viaggia due volte alla settimana da Tripoli a Sfax e viceversa. „A Sfax carico di tutto, ma soprattutto ortaggi, legumi, verdura, tonno, insomma roba da mangiare; in Libia importiamo di tutto ed esportiamo solo petrolio. E poi a me piace molto la Tunisia, ho bisogno delle cure di un dentista ed il mio dentista e’ a Tataouine“. Gia’, petrolio-benzina e cure mediche, altri capitoli importanti dell’economia transfrontaliera evidentemente. Benzina. Viaggiando verso Nord noto bidoni semipieni davanti a quasi ogni casa: i contadini comprano benzina in Libia e la rivendono. Traffico non legale ma tollerato perche’ questo tipo di commercio e’ una fonte complementare di reddito importante per i bilanci delle povere famiglie della Tunisia meridionale; in Tunisia la benzina costa quasi quanto in Europa (il che a parita’ di potere d’acquisto vuol dire di piu’), in Libia te la tirano dietro. Cure mediche. A Medenine trovo la conferma di quello che mi aveva raccontato il camionista libico. „Si, i miei clienti sono per il settanta per cento libici“ - dice il dentista che un collega mi presenta - „pagano sull’unghia e non chiedono sconti; loro hanno soldi ma non hanno medici a suffcienza, noi abbiamo tanti medici e non abbiamo soldi. Senza i libici saremmo quasi tutti a spasso ed a passare la giornata al caffe’. Diciamo che ci diamo una mano l’uno con l’altro, da buoni fratelli“. A pagamento s’intende. Un altro medico, specialista in malattie dell’apparato digerente, annuisce: „anche da me vengono tantissimi libici“. Fouad ha un negozio di jeans e magliette. Ci entri ed il rai e’ lanciato a volumi da discoteca all’aperto che insidiano l’apparato uditivo di un non-allenato come me visto che il negozio avra’ al massimo dieci metri quadri. „Si’, i libici, ottimi clienti. E soprattutto pagatori puntuali, non come i miei vicini che vengono da me, se ne vanno con due piccole cose e mi promettono di pagarle il mese prossimo. Cosi’ e’ da noi“. Souad va spesso in libia – mi dice. „Per noi e’ facile, non abbiamo bisogno del visto. Andiamo e compriamo cibo“. „Cibo? – replico io – ma i prodotti alimentari che si vendono in Libia mi hanno detto che vengono dalla Tunisia!“. „E’ cosi’, ma i prezzi da loro sono sovvenzionati dal governo, non come da noi. Ma lo sai che un chilo d’olio tunisino costa da loro meno che da noi?“. Il fratello di Fouad lavora all’estero. E’ diplomato nella scuola superiore di costruzioni, ma all’estero dove lavora, cioe’ in Libia, fa il semplice muratore, non il capocantiere. „Che credi - mi fa Fouad - quello quando viene qui offre a tutti e non voglio nemmeno pensare che cosa succederebbe qui se tutti quelli che sono nella sua stessa condizione per un qualche motivo dovessero essere costretti a tornare qui“. Gia’, a tornare, come sta accadendo in questi giorni di febbraio e di marzo del 2011. Tornare in un Paese dove molti hanno in tasca un diploma od una laurea, moltissimi non hanno l’occasione di utilizzarli, tantissimi per vivere devono arrangiarsi. Ai libici piace Djerba. L’isola, perla turistica del sud tunisino dove gli europei vanno in vacanza pure in pieno inverno pensando di essere alle Seychelles e non sul Mediterraneo ed attratti da prezzi stracciati, e’ piena di libici. Grandi macchine, per ospitare famiglie intere (numerose). Libici rilassati: per loro Djerba e’ come la Costa Azzurra lo e’ per i cugini arabi dei ricchi Emirati del Golfo. Ed ha anche qualcosa che per i costumi d’oltreconfine sa persino di trasgressione. In un ristorante, in attesa di un volo per Tunisi, cerco di avvicinarne alcuni. „Qui ci piace, e poi parlano arabo, e’ come stare a casa ma senza la mamma che ci dice che cosa dobbiamo mangiare“. In questi mesi dell’inizio del 2011 questa economia che porta vantaggi all’una ed all’altra parte della frontiera si sta disgregando. Tornano i muratori come il fratello di Fouad, i medici non hanno i clienti di prima, andare a comprare da mangiare dall’altra parte e trafficare in benzina non e’ piu’ facile, a Djerba vedremo che cosa accadra’.

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12 mars 2011 6 12 /03 /mars /2011 10:48

Pasqua. Ed e’ strage di agnelli e di maialini da latte. Ma e’ davvero necessario?

E poi, abbuffate di insaccati e prosciutti, tanto per dare una mano all’insorgere di malattie dell’apparato cardiocircolatorio.  E per finire in bellezza   - per dire -   dolci preparati con insani grassi animali.

Sono assolutamente contro la guerra e contro tutte le guerre (un’altra volta spieghero’ perche’, dato che il mio punto di vista e’ un po’ diverso da quello dei pacifisti beau marché), pero’ una cosa la devo riconoscere: durante gli anni piu’ duri della Seconda Guerra Mondiale, persino in un Paese abituato a mangiare in  modo insano come la Germania l’incidenza delle malattie cardiocircolatorie crollo’ drasticamente. Par force majeure dalle zuppe erano sparite cose tipo stinchi di maiale, pancetta, guanciale e cotiche. Non si buttavano via invece le bucce delle patate, saggia pratica, ancorche’ dettata dalla scarsita’ di cibo „superiore“. C’era chi setacciava i parchi per raccogliere le ortiche e farne una zuppa.

Suvvia, non propongo una Pasqua austera fino a quel punto, ma si puo’ mangiar bene, anzi benissimo, senza mettere al centro della dieta grassi e proteine animali. A condizione di saper cucinare bene.

Ma questa e’ un’altra storia. Una raccomandazione non facile da seguire. Vuoi per pigrizia vuoi per pura ignoranza, vuoi ancora per conformismo del gusto.

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17 février 2011 4 17 /02 /février /2011 20:22

Su un mobile basso della piccola sala riunioni dello studio di Andrus e’ in mostra un monumentale esemplare di macchina da scrivere Orga. Fabbricata in Germania qualche anno prima della fine della Repubblica di Weimar. „Funziona benissimo“ dice Andrus, „a quei tempi compravamo quasi tutto dalla Germania“. Il lavoro di Andrus consiste nell’offrire soluzioni organizzative per imprese straniere che si stabiliscono sulla sponda del Baltico, qui, in Estonia. „Sono un avvocato“        - ci tiene a precisarlo -      „come mio nonno e come il fratello di mia madre, ma da qualche anno aiuto le imprese ad usare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per migliorare le loro performances gestionali (dice proprio cosi’: „performances“)“. Andrus si allontana per un paio di minuti. Torna con uno specchio da barba e lo mette giusto a destra della macchina da scrivere. „Vedi?“  - mi dice -   „cosi’ e’ l’Estonia, con un piede nel futuro e l’altro piantato nella tradizione“. „Quello specchio“  - aggiunge – „lo usava mio nonno per farsi la barba senza staccarsi dalla macchina da scrivere dopo una notte insonne. Oggi mi fa pensare allo schermo di un computer, e la macchina ad una tastiera“.

„Mio nonno era avvocato a Tartu. Aveva un sacco di clienti, per lo piu’ kulaki dei villaggi vicini, piccoli proprietari terrieri che litigavano fra loro per questioni di confini“. Mi mostra una fotografia del nonno che lo ritrae assieme ai due suoi giovani di studio con i colletti inamidati e in cravatta. Nonno escluso: lui esibiva un farfallino. „Nell’estate del 1940“       -  prosegue -      „mio nonno capi’ di avere una pericolosa arma in studio, era proprio questa ORGA. La marina sovietica era arrivata, e presto sarebbero arrivati polizia e polizia segreta. Tutti a controllare che cosa si faceva in quella casa borghese ed in quello studio. „Mio nonno doveva disfarsi della ORGA, e cosi’ la diede ad uno dei suoi clienti, che poi la porto’ con se’ nascondendola sotto la paglia della sua stalla. La ORGA e’ sopravvissuta ai controlli sovietici, all’esproprio della terra del cliente di mio nonno, ai rivolgimenti post-comunisti. L’ho recuperata, ovviamente non la uso ma non potrei fare il lavoro che faccio senza averla di fronte a me ogni giorno“.

Lo studio di Andrus e’ un esempio di come in Estonia tra tradizione ed innovazione ci sia continuita’. „Abbiamo un collegamento in rete velocissimo, d’altra parte questo e’ un diritto sancito per legge qui da noi, tutte le transazioni con il governo le regoliamo via internet, abbiamo solo dovuto registrarci nel portale unico dell’amministrazione pubblica ed abbiamo avuto un identificativo ed una casella di posta elettronica dalla quale trasmettiamo comunicazioni ufficiali e sulla quale riceviamo comunicazioni ufficiali. Pero’ guarda che belle porte abbiamo, guarda quanto e’ bello il parquet che abbiamo restaurato. Affacciati alla finestra: siamo nel centro storico, il meglio conservato d’Europa, l’UNESCO lo ha dichiarato patrimonio dell’Umanita’. Nei business centers ultramoderni ci vanno le imprese o le rappresentanze straniere, noi stiamo riscoprendo il piacere di lavorare in ambienti di tradizione. L’Estonia e’ un Paese nordico, non un Paese dell’Est“  - aggiunge con una punta di orgoglio e di malcelato complesso di superiorita’ –.  „Non lontano da qui, a San Pietroburgo, c’e’ chi si lamenta perche’ ci sono troppi monumenti e vorrebbe piu’ architetture moderne. Noi abbiamo deciso di concentrarci su quello che per noi conta: un’amministrazione vicina al cittadino, trasparenza, infrastrutture per le telecomunicazioni. Oggi la crisi colpisce, dopo anni di crescita economica a due cifre. Domani vedrete, saremo capaci di ripartire meglio di altri perche’ abbiamo investito nel futuro“.

Esco dallo studio di Andrus. Sotto la pensilina della fermata dell’autobus una signora traffica con il suo laptop. Forse sta pagando le tasse attraverso la rete usando l’identificativo che le e’ stato assegnato quando si e’ registrata sul portale governativo.

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16 novembre 2010 2 16 /11 /novembre /2010 11:42

Anna Zambrano, architetto, lavora da circa 20 anni alla Direzione Generale della Cooperazione presso il Ministero degli Esteri italiano.
Ha gestito numerosi progetti nel settore delle infrastrutture e della gestione urbana in America Latina, in Africa e nei Balcani. Negli ultimi quattro anni ha diretto l’Unita’ Tecnica Locale di Belgrado, Pristina e Podgorica.

Attualmente lavora ad Haiti in un progetto di sostegno alla protezione civile haitiana finanziato dalla Commissione Europea.

 

 

Sono appena arrivata ad Haiti ieri sera. L’areoporto di Port au Prince e’ un hangar  color marrone scuro, con tetti in metallo. L’ingresso  spalancato sulla pista d’atterraggio non e’ molto invitante perche’ le luci fioche donano all’insieme un aspetto spettrale. Nel fondo del salone d’ingressso , sul lato destro due specie di cattedre come si usavano negli anni 40 nelle scuole italiane, solo un po’ piu’ grandi, rappresentano la frontiera. Un signore, senza divisa ti chiede con aria distratta il passaporto e vi stampa, con totale indifferenza il timbro. “Se proprio vuoi venire ad Haiti, accomodati pure , sembra dire guardandoti dritto negli occhi, guarda che qui si muore! C’e’ il colera, ci sono gli uragani, c’e’ il terremoto e se non lo sai ancora, stiamo aspettando la scossa fatale... l’energia custodita dalla terra giace ancora nelle sue viscere ma e’ pronta a manifestarsi presto, tardi..... chi sa!!”. Improvvisamente sento al mio lato un urlo di una giovane ragazza haitiana, forse una studentessa, che piange tutto il suo dolore, un amico la consola ma ha appena appreso di aver perso una persona cara con il colera!

Da circa 15 giorni il colera e’ scoppiato nelle regioni del Nord Est a Port de Paix ed ha gia’ fatto qualche migliaio di vittime. Sembra che l’epidemia non abbia ancora raggiunto Port au Prince, ma leggendo i giornali prima di arrivare e soprattutto guardando da Google Hurt  si vedono le tende donate dall’ONU che si estendono su tutto il territorio ma soprattutto nella capitale, occupando place St. Pierre, place Boyer e Champ de Mars di fronte  al Palazzo del Presidente.

Tre auto blindate con tre body-gard ci accolgono per scortarci all’Hotel. La strada e’ stretta e buia, le sole luci presenti sono i fari delle auto, dei Tap-Tap ( piccoli veicoli di trasporto pubblico) , degli autobus, e delle auto blindate della MINUSTAH, piccolo esercito dell’ONU , che gestisce da molti anni la sicurezza ad Haiti. L’Hotel Coconut Villa ci accoglie; il nome potrebbe creare delle aspettative seducenti ma Coconut Villa Hotel e’ il tipico hotel haitiano... piccole stanzette buie, arredate in maniera spartana: letto, armadio comodino e guardaroba....Il tutto  un po’ lercio ad essere sinceri, ma l’accoglienza e’ calorosa.

Il gruppo e’ costituito da tre francesi, un belga, un guadalupeno, un irlandese , un libanese e me italiana. Siamo stati selezionati dalla Commissione Europea per un progetto che dovrebbe aiutare il Governo haitiano a migliorare i propri sistemi di allerta e di primo soccorso in caso di crisi.

Il viaggio da Roma e’ durato un tempo lungo.... 12 ore di volo ma con gli scali e la notte a Parigi Orly sono quasi 24 ore che sono sveglia!! Sono stanca, ma mi attira molto vivere una esperienza cosi’ difficile , mi attira molto essere ad Haiti mentre il Paese sta vivendo una crisi umanitaria gravissima e quindi sono eccitatissima.. non ho sonno.

 

 

 

 

                                                                                                                                                                15 Novembre 2010

 

Oggi abbiamo partecipato alla prima riunione con ECHO, che ci fa da base logistica, fino a quando non avremo trovato una sede per il nostro ufficio. La riunione ‘e con tutti gli organismi come UN, SOUTHCOM, MINUSTAH e ONG che si occupano di crisi umanitarie.Incontro un paio di italiani che lavorano uno per il PAM e l’altro per la Banca Mondiale, mi piace di tanto in tanto ritornare ad esprimermi  nella mia lingua, faccio piu’ bella figura!! Gli impegni finanziari presi sono considerevoli : centinaia di milioni di euro sono stati promessi ma mi chiedo quanti saranno effettivamente spesi e quanti , soprattutto, saranno ben spesi. Lavorando da molti anni nella cooperazione a volte ho la netta sensazione che i programmi, soprattutto quelli che costano tanto, servono piu’ agli operatori che ai beneficiari dell’aiuto.

Nel pomeriggio c’e’ stata una prima riunione con il Ministro degli interni Bien-Aime’, con la Direttrice del Dipartimento della Protezione civile Jean Baptiste ed alcuni esponenti del Governo. Il programma, nato dopo una serie di missioni della Commissione europea, ancora non era molto chiaro agli haitiani, e quindi abbiamo spiegato cosa avremmo voluto realizzare. Il Ministro si e’ mostrato apparentemente interessato, in realta’ tutte le attivita’ previste riguarderanno il suo successore in quanto lui potrebbe non essere riconfermato dopo le prossime elezioni.

Le notizie sul colera non sono buone, l’epidemia, ci dice Madame Jean Baptiste sta raggiungendo il primo picco e migliaia di persone sono state ospedalizzate.  Le notizie si susseguono, viene indetta una riunione presso il Centro Operativo Nazionale e viene presentato dalla DINEPA (Direzione Nazionale dell’Acqua Potabile ) un progetto di circa 60 Milioni di dollari. L’Austria offre un finanziamento di 1 M di dollari , i francesi offrono 3 tonnellate di medicinali di primo intervento ed attrezzature sanitarie. Intanto viene sconsigliato a tutti gli europei che vivono a Port au Prince di viaggiare nel Paese a causa del colera ma anche perche’ si temono reazioni violente della popolazione durante i giorni  (27 e 28 novembre) delle prossime elezioni. IL PAHO/WHO ha allertato tutti i Paesi latino –americani perche’ prendano delle misure urgenti e si preparino ad una possibile penetrazione del colera in quell’area.

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30 septembre 2010 4 30 /09 /septembre /2010 11:10

Sulla παραλια (lungomare), una strada a quattro corsie per senso di marcia con a monte palazzi elegantissimi, cafeterie, ristoranti cosmopoliti, negozi di mobili di design italiano e verso la battigia una fascia verde larga qualche centinaio di metri perfettamente tenuta ed attraversata dai tram disegnati da Pininfarina, la scena non e’ diversa da quella di due anni fa. E’ un lungomare un po’ Santa Monica (ma a sviluppo verticale) un po’ croisette di Cannes, percorso da tante BMW cabriolet e Mercedes coupés, nell’angolo forse piu’ esclusivo dell’Europa Sud-Orientale. Quello che piu’ colpisce e’ la grande quantita’ di Smart biposto guidate da ragazze e signore bionde (finte ovviamente, ma qui i parrucchieri lavorano bene, almeno quanto i chirurghi estetici). Quando ero ragazzino su questa strada scorrevano soprattutto berline di fabbricazione tedesca o inglese di seconda o terza o ennesima mano ed anziani macchinoni americani convertiti in taxi, mentre alla domenica mattina dai sobborghi e dal centro si riversava anche un buon numero di motocarri, con famiglie sedute su cassoni che nel resto della settimana non ospitavano persone ma cose. Almeno di domenica, questa citta’ che non aveva ancora conosciuto clamorose diversita’ di condizione sociale si tuffava in mare unita e si ritrovava unita, con la sola differenza che all’ora di pranzo „i ricchi“ avrebbero mangiato nelle taverne (non in ristoranti alla francese o all’italiana) mentre sulla spiaggia o sugli scogli le famiglie povere si sarebbero divise tegami di pastitsio o di moussaka preparati in casa.

Ad un occhio nuovo dei luoghi, oppure ad un occhio superficiale la παραλια trasmette oggi, Settembre 2010, un’immagine non di benessere materiale, ma addirittura di opulenza, come quella degli anni dell’illusione consumistica pre-crisi, mentre l’ordinatissima fascia costiera, i tram „europei“, il verde rasato ed innaffiato dello spartitraffico fanno pensare ad una ricchezza „pubblica“. Un occhio appena piu’ attento coglie pero’ le prime differenze con la situazione di qualche anno fa: a contare il numero di negozi, cafeterie e ristoranti chiusi si perde il conto, mentre i piani terra dei palazzi nuovi sono tappezzati da cartelli che dicono „ενοικιαζεται“ (si affitta) o addirittura „πολειται“ (si vende). E si vede che quei cartelli sono ingialliti: da mesi non si affitta e non si vende.

Serata al ristorante di un amico, sempre sulla παραλια. Sono le otto e mezza, ed e’ sabato, mica un giorno lavorativo. Al ristorante a mangiare siamo per ora in due. Il mio amico e’ nervosissimo e se la prende con il governo: „non bastava la crisi, adesso hanno proibito pure il fumo nei luoghi pubblici. Se trovo uno che se lo compra, il ristorante lo vendo“. Due anni fa, in questo stesso posto, a questa stessa ora, il ristorante aveva gia’ registrato il tutto esaurito. Le strade intorno cominciano piano piano ad animarsi, ma per ora nessuno entra, mentre qualcuno prima di entrare guarda la locandina con il menu’ ed i prezzi (cosa mai vista in Grecia) e si allontana. Eppure il ristorante del mio amico non e’ certamente costoso. I giovani, fuori, per strada, addentano panini con hamburger comprati da Goody’s (un McDonald ellenico) o vaschette di pollo fritto comprate da KFC; ad entrare nel ristorante (e neppure nella taverna dell’angolo) non ci pensano neppure.

Alle nove e mezzo il ristorante comincia a riempirsi. Alle dieci c’e’ molta gente, ma di tavoli liberi ne restano. Ed e’ sabato sera.

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16 septembre 2010 4 16 /09 /septembre /2010 10:28

Pierluigi Mennitti, giornalista professionista, vive e lavora a Berlino. Anima il web magazine “East Side Report” ed il blog “Walking Class”.

 

L’addetta della compagnia di autobus che collega Cracovia, in Polonia, a Leopoli, in Ucraina, ci lascia nel dubbio: «Il servizio è fornito alternativamente da autobus polacchi e ucraini, ma non si sa in anticipo quale dei due partirà stasera. Quelli polacchi sono più moderni, quelli ucraini più vecchiotti e scomodi. Buona fortuna». Le compagnie di autobus che vendono biglietti per tutte le destinazioni d’Europa si contendono un largo spiazzo polveroso alle spalle della stazione centrale di Cracovia. Arrivando dal centro cittadino, devi entrare nell’androne della stazione, uscire sul primo binario, proseguire in fondo a sinistra, scendere per le scale, imboccare un tunnel che passa sotto gli altri binari e uscire dal lato opposto. Qui si apre lo spiazzo polveroso. La stazione degli autobus è ancora più avanti, un terminal costruito di recente, con una grande sala d’attesa, poltroncine e un tabellone elettronico sul quale scorrono numeri e lettere, orari e città. Ma i venditori di biglietti sono tutti addossati in questo piazzale, stipati dentro chioschi prefabbricati di lamiera dove si soffoca per il caldo (e d’inverno si gela per il freddo) e ventilatori da discount di periferia soffiano l’illusione di una brezza. È una via di mezzo fra un campo profughi abbastanza ordinato e un bazar turco meno folkloristico. «Buona fortuna», ripete l’addetta, dopo averci consegnato i biglietti del viaggio, un papiro grande quanto un lenzuolo, tirato fuori da una stampante ad aghi che farebbe la sua figura in una bottega di modernariato. Si chiama Agneszka, nome assai frequente da queste parti.

La Polonia è ormai un paese moderno, assieme all’Estonia il più avanzato fra quelli usciti dalla lunga notte del comunismo. Le agenzie che svolgono servizio verso i paesi dell’Europa occidentale hanno uffici più grandi e spaziosi, le migliori hanno traslocato nel terminal delle partenze e degli arrivi ed emettono biglietti lucidi e colorati da stampanti laser. Ma chi deve recarsi a est entra ancora in una sorta di macchina del tempo che lo rispedisce indietro di qualche decennio.

Seduti molte ore dopo di fronte al tabellone elettronico della sala partenze, lo sguardo si posa sugli altri viaggiatori in attesa. L’elenco segna ancora solo un paio di destinazioni, è naturale pensare che le persone sedute, a occhio non più di una ventina, saranno i nostri compagni di viaggio. È una compagnia piuttosto assortita: due anziane babuske ucraine, con foulard tradizionali e pesanti vestiti contadini, una coppia di anziani eleganti e distinti, un gruppo di uomini e ragazzi con la barba non rasata da qualche giorno che discutono ad alta voce fra di loro, un altro paio di coppie di mezza età vestite modestamente, sei ragazze solitarie che hanno l’aria di essere abituè del pendolarismo. Tutt’intorno fagotti, pacchi, scatoloni di prodotti elettronici, valige troppo grandi. Tutti hanno un’aria tranquilla, come di chi è abituato a percorrere questa linea. Quando un autobus scalcinato si affaccia nel piazzale delle partenze e imbocca esattamente il gate dove è indicata la nostra destinazione, ci ritorna in mente l’augurio di Agneszka. La roulette dei giorni incrociati non ci ha portato bene. Il mezzo è ucraino, e si vede.

È vecchio e malandato, verniciato di bianco con due bande laterali verdi attraverso le quali si insinuano lunghe striscie di ruggine. Dentro è ancora peggio. I sedili hanno la fodera usurata e i poggiaschiena rotti, bloccati o troppo in alto o troppo in basso, i braccioli allentati, il pavimento di linoleum lercio e consunto, le tendine di stoffa azzurra rigide per la polvere, stratificatasi in anni di onorato servizio sulle strade dell’ex Unione Sovietica. Allenati dalle esperienze delle gite scolastiche, ci fiondiamo nei sedili posteriori, mentre tutti gli altri prendono posto in quelli anteriori, evitando con cura i più malridotti. Pessima scelta, la nostra. Il motore è posizionato in fondo, ogni cambio di marcia è una frusta alla schiena e lì si condensa l’odore di nafta che fuoriesce dal serbatoio. Pazienza. Niente rovinerà l’euforia per l’avventura, anche se l’Ucraina ha deciso di presentarsi trecento chilometri prima del confine nella sua veste più sbrindellata. Quando l’autista chiude il portellone dei bagagli e sale sul mezzo per mettere in moto, tutti trattengono il respiro. Con consumata perizia infila la chiave nella toppa e prova a mettere in moto. Dal corpaccione cigolante dell’autobus viene fuori un grugnito non troppo convinto, subito soffocato in un angosciante silenzio. Ma il nostro conducente, un omaccione corpulento e baffuto che sa il fatto suo, non si dà per vinto e riprova con maggior convinzione. E al secondo colpo il torpedone si anima, i pistoni cominciano a tambureggiare, sebbene ognuno per fatti propri, la cinghia di trasmissione geme soddisfatta, le giunture frignano festose, le sospensioni sobbalzano accompagnando il ritmo, la marmitta rutta come un hooligan inglese dopo dieci pinte di birra e tutto l’autobus, passeggeri e bagagli compresi, traballa all’unisono come una sgangherata orchestra gitana. L’ultimo ostacolo è ingranare la marcia, ma il conducente lo supera con spavalda disinvoltura, ancora una raspata e ci muoviamo, sussultando come a un terremoto e lasciando le rassicuranti luci della stazione degli autobus di Cracovia. Una volta partiti, siamo anche certi che arriveremo.

Il viaggio notturno è un’esperienza in sé. I due fari sbiaditi del torpedone ucraino penetrano nel buio della campagna polacca, seguendo dolcemente le curve della statale che si insinuano nella notte galiziana. Il cielo è stellato, la temperatura scende, di riscaldamento interno neppure a parlarne, ci si rintana dentro i giacconi e i fiati dei passeggeri disegnano nuvole di vapore che in breve tempo appannano i finestrini. Scorrono così lattiginose, di tanto in tanto, le luci dei borghi polacchi che attraversiamo: Brzesko, Tarnow, Rzeszow, Jaroslaw, Przemysl. Dai vetri smerigliati si intuiscono i profili dei centri commerciali delle periferie e i grandi supermercati, i nuovi feticci del consumo che hanno omologato lo shopping anche in queste terre orientali, dove trovi le stesse marche di vestiti, oggetti e alimenti che puoi acquistare a Roma, Berlino e Parigi: prima di storcere il naso, conviene ricordare che, per chi fino a venti anni fa si doveva accontentare dei prodotti del mercato interno del Comecon, è comunque un passo in avanti. La classica fermata di ordinanza nella stazione di servizio concordata dall’autista serve a sgranchirsi le gambe, visitare la toilette (pulitissima), bere un pessimo caffè, respirare a pieni polmoni la rugiada dei campi galiziani e rimpiangere il tepore vaporoso di aliti e nafta dell’autobus. Si risale, mezz’ora di strada ed ecco il confine.

Questa è una frontiera seria. Qui finisce l’Europa dell’Unione, quella con la bandiera blu e le dodici stelle gialle in cerchio come le ore sul quadrante di un orologio che nel farsi unita s’è fatta fortezza. La strada si allarga, le corsie si moltiplicano, il traffico diventa di colpo intenso. Ai lati i grandi tir carichi di merci attendono l’espletamento di controlli che dureranno tutta la notte. In fondo, la dogana, una lunga teoria di caselli con le garritte, i soldatini, i poliziotti, i finanzieri e i funzionari statali. Sono le due e un quarto della notte, tutto intorno è buio come la pece, qui sotto i riflettori sembra di essere nel centro di una metropoli all’ora di punta. Si esce e si entra. Dall’altro lato della carreggiata, la fila è ancora più lunga, i controlli ancora più severi. Passiamo un’ora nelle mani dei doganieri polacchi. Salgono sull’autobus con le torce elettriche in mano, domandano, interrogano, frugano nei fagotti e nelle valige, scrutano accigliati i passaporti. Siamo gli unici cittadini dell’Unione Europea in tutto il bus e ce la caviamo da privilegiati con uno sguardo veloce al passaporto e un sorriso complice. Ci vergogniamo un po’, senza tuttavia comprendere perché ci voglia un’ora per controllare venti persone. Alla fine la sbarra si alza e si entra nella terra di mezzo. Pochi metri ed ecco la seconda dogana. Le operazioni sono identiche, solo che poliziotti, soldatini, finanzieri e funzionari hanno un’altra divisa. L’atmosfera è più rilassata, si sorride di più, si controlla di meno ma a noi “europei” viene riservato lo stesso trattamento di favore. La signora che controlla i nostri passaporti, una bionda cinquantenne tarchiata e simpatica, tira fuori il piccolo repertorio di italiano e accenna a un motivetto musicale del quale non andiamo particolarmente orgogliosi, una di quelle canzoncine che da noi nessuno più ascolta (e se lo fa, si guarda bene dal dirlo in giro). Però lei si diverte molto e noi teniamo bordone: sì, siamo italiani veri. Sul lato ucraino, tutto si svolge più velocemente, mezz’ora appena e abbiamo il via libera. Si sono fatte le quattro, dai finestrini ora spannati si guarda senza invidia la lunghissima fila di auto e camion in attesa di passare la frontiera in senso opposto, poi d’improvviso la carreggiata si restringe, le corsie diventano due e cominciano le buche.

Voragini profonde come su un campo appena bombardato. L’autista conosce i segreti della rete stradale ucraina, spesso rallenta, imbocca la carreggiata opposta, evita luciobattistianamente le buche più dure ma non può impedire che l’ultimo tratto di viaggio si trasformi in un giro di tagadà, con le sospensioni dell’autobus che sembrano a ogni colpo tirare l’ultimo respiro. Impieghiamo quasi due ore a percorrere i 70 chilometri che separano il confine da Leopoli, mentre le prime luci dell’alba smerigliano campi verdi e piccoli villaggi disposti lungo la strada e i neon dei tanti mini-market tipici delle vie di confine offrono punti di riferimento per traffici di ogni genere. La periferia di Leopoli è brutta, un tuffo al cuore di miseria e trascuratezza e la stazione degli autobus si trova proprio qui. Non è il biglietto da visita migliore della città, al contrario della stazione ferroviaria costruita in stile art nouveau e recentemente ristrutturata. Il padiglione centrale è una cadente struttura massiccia in cemento armato, al suo interno si muovono anime in pena appena tirate giù da sonni instabili, le luci sono flebili e smorte e si confondono con quelle lattiginose dell’alba. La biglietteria e l’ufficio di cambio offrono gli unici segnali di vita, un distributore automatico seduce con l’illusione di un caffè, un bancomat automatico vorrebbe suggerire l’irruzione della modernità: ma è fuori servizio.

Nel piazzale di fronte amici e familiari caricano sulle automobili i conoscenti appena arrivati, con le loro stanchezze e i loro bagagli, i tassisti offrono passaggi a prezzi che non siamo ancora in grado di valutare se siano convenienti o da truffa. Tutto si svolge in un’atmosfera ovattata, prevale il silenzio. È un mattino qualunque di un giorno qualunque e dai casermoni circostanti sciama lentamente per la strada l’esercito dei lavoratori ancora assonnati. Uomini di mezza età con giubotti di pelle, ragazze con spolverini dai colori troppo accesi, anziane signore infagottate in gonne pesanti, giovani orgogliosi nell’uniforme militare. Ci accodiamo dubbiosi alla fermata dei mezzi pubblici: il viaggio in zaino non prevede il lusso di un passaggio in taxi. Ci stringiamo in una mashrutka, una sorta di minibus diffusissimo in tutti i paesi dell’est, la numero 36 il cui itinerario promette di portarci in centro, dove ci attenderà un’altra Leopoli, quella elegante dei palazzi barocchi che richiamano le malinconie perdute della Galizia. Ucraina occidentale, oggi, il cuore di quella che fu la rivoluzione arancione, la porta verso occidente con i suoi giovani effervescenti e il suo isolamento indolente, una città al tempo stesso vivace culturalmente e asfittica economicamente, proiettata verso un futuro cui ancora non riesce a dare forma, forse neppure a immaginare. Qui si guarda a Varsavia e a Vienna, di Russia non si vuol neppure sentire parlare. La latina Leopoli, l’austriaca Lemberg, l’ucraina Lviv, la russa Lwow, tanti nomi per una unica città, nessuna identità precisa e centomila passati. Un crocevia di uomini portati e deportati dalle vicende storiche, da regimi che venivano e andavano, da confini che potenze più grandi hanno spostato a loro piacimento. Le cucine rimandano odori russi, di panna acida e zuppa di barbabietole, smetana e borsch, di burro soffritto che avvolge i pelmeni. La cucina originaria galiziana si è trasferita a occidente, assieme agli abitanti che i sovietici deportarono in Slesia e Pomerania per popolare le nuove terre polacche strappate ai tedeschi. È a Breslavia, oggi Wroclaw, che i ristoranti con nomi galiziani cuocciono i sapori della nostalgia leopolina. Questa città inquieta e malinconica è la prima tappa di un viaggio che ci condurrà fin nelle steppe orientali del paese. Siamo in Ucraina, da qui comincia un’altra Europa.

 

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23 août 2010 1 23 /08 /août /2010 11:55

La settimana scorsa, mentre viene annunciato che il PIL della Repubblica Popolare Cinese ha superato quello del Giappone (per il PIL pro-capite bisognera' aspettare: per il momento quello cinese e' appena un decimo di quello dell'arcipelago) accadono, nel piu' modesto ambito del mio vicinato, due fatti importanti.  A casa mia va in pensione il mio laptop Fujitsu-Siemens, a casa del mio vicino la sua Toyota Corolla. Il furgoncino della catena di elettronica di consumo ritira il vecchio Fujitsu e mi consegna il mio nuovo laptop Lenovo (la Lenovo e' cinese e qualche anno fa ha comprato la divisione computer dell'IBM). Il mio vicino torna dal lavoro senza la sua Toyota Corolla, ma alla guida di una Roewe 750, cinese al 100% ma simile ad una Rover 75. La Cina vince anche dalle parti di casa mia.

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15 août 2010 7 15 /08 /août /2010 09:32

Si chiama Binbir Gece, che in turco sta letteralmente per „Le Mille ed una Notte“. Al centro della storia c’e’, ovviamente, una Sherazade, che a differenza che nel capolavoro letterario non e’ la figlia del vizir ma un’architetta con studio in un antico loft con muri di pietra a vista arredato con mobili di design d’avanguardia. Sherazade e’ il perno della storia, anzi di storie parallele o ad incastro, proprio come nell’originale letterario. Binbir Gece e’ all’apparenza una telenovela o soap opera che dir si voglia, in realta’ e’ qualcosa di piu’, una sorta di passaporto per capire la Turchia di oggi, o il modo con cui la Turchia intende rappresentarsi. C’e’, innanzi tutto, Istanbul, molto spesso ripresa di notte: la Torre di Galata, le grandi moschee, ma anche i grattacieli illuminati a giorno, i ristoranti sofisticati, i ponti sospesi sul Bosforo, le autostrade urbane. Ci sono tre grandi famiglie ricche e le madri, gran signore premurose verso i nipotini e matriarche di rigidi principi verso i figli. I figli vivono in ville eleganti sul Bosforo e hanno la passione per imbarcazioni da diporto: non quelle preferite dai neoricchi, ma solide barche a vela in legno. In fatto di amore questi hanno idee confuse: ce n’e’ uno che ha avuto quattro figli da tre donne diverse. Le famiglie sono „grandi“ e non chiudono la porta in faccia a nessuno, tantomeno a parenti ed affini: cugini, cugine, zie, zii, fratelli di mogli separate dai figli: tutti sono accolti, perche’ cosi’ la famiglia naturale si allarga e se ne allarga il potere. Sono ricchi ma onesti: chi e’ nel settore delle costruzioni e dei grandi lavori reagisce alle pressioni di immancabili imprese e personaggi dalla dubbia reputazione che vogliono inquinare gare d’appalto. Nella storia ci sono anche le ambizioni e gli interessi turchi verso i Paesi turcofoni dell’Asia Centrale ex-URSS: costruzione di edifici e centri commerciali arditissimi in Azerbajgian ed in Kazakhstan. Quello che non c’e’ sono fazzoletti che coprano i capelli delle donne, ne’ tanto meno ci sono veli. Neppure tra le donne che vengono dalle cittadine e dai villaggi della provincia. La tradizione si intreccia con la modernita’, ma la tradizione e’ piuttosto quella familistica mediterranea che non quella della cultura islamica. L’ancoraggio ai principi della tradizione serve per fare il salto verso la modernita’ minimizzando i relativi rischi, non e’ un ostacolo al cammino verso la modernita’. Non mancano gli apologhi del genere ecologista e atti di esemplare solidarieta’ sociale: proprio Sherazade entra in rotta con l’ex-suocero (e finanziatore) che per costruire un nuovo quartiere vuole mandar via a forza di ruspe i baraccati che si sono istallati abusivamente sui suoi terreni. Inutile dire che l’ex-suocero, che passa parte del suo tempo nei caffe’ del bazar con i suoi vecchi amici e non nei ristoranti sofisticati, alla fine cede. Il fatalismo si mescola con il pragmatismo, per esempio nel modo con cui i giovani alla testa di una grande impresa scelgono i propri partner d’affari. C’e’ anche la storia di un anziano, ex star della rock music proprietario di un negozio di strumenti musicali in disgrazia per debiti. Decisamente fricchettone, ma in una taverna affronta un gruppo di uomini che avevano rivolto apprezzamenti pesanti nei confronti della figlia poco piu’ che adolescente e finisce in ospedale per una ferita da arma da taglio. Le storie non cedono al patetico, come invece nei culebrones sudamericani o nelle soap nordamericane: quello che conta e’ mostrare una societa’ moderna ma con i piedi ben piantati nella tradizione e con grandi ambizioni. La Turchia di oggi. Lo studio di Sherazade e’ il simbolo che sintetizza questo messaggio. Non so se questa serie sia arrivata in Italia, ma sta dominando gli schermi e fa incetta di audience in tantissimi Paesi.

 

(15 Agosto 2010)

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5 mai 2010 3 05 /05 /mai /2010 19:46

Molti di voi ci arriveranno in macchina, dall’autostrada che viene da Vienna. Cosi’ capito’ a me la prima volta. Cosi’ e’ capitato a me tante volte in seguito anche se piu’ tardi si trattava solo di tornare a quella che temporaneamente era la mia casa. Appena in citta’ seguite l’indicazione per Erzsebet Hid (Ponte Elisabetta). Sarete ad un semaforo, li’ girate a destra. Siete a Buda e a qualche centinaio di metri da  quel semaforo potra’ mancarvi il respiro: sotto di voi, a sinistra, vedrete il Danubio, i ponti, oltre il fiume i palazzi liberty di Pest (qui il liberty e’ chiamato „Secessione“). Se siete sensibili, e se e’ sera e le luci della citta’ sono tutte accese, per sostenere questo spettacolo emotivamente forte non fareste male a prendere un calmante. L’ingresso a Pest, dopo il ponte, e’ impressionante. Penso che architetture come quelle dei due palazzi Christina, uno a destra l’altro a sinistra del viale che state imboccando, le potrete trovare solo a Parigi o a Buenos Aires. Ora siete a Pest, prototipo della citta’ europea piu’ moderna fino alla prima guerra mondiale. Pest, citta’ costruita con i quattrini dei ricchi borghesi della belle époque e con il lavoro di scalpellini e muratori. Il primo incrocio importante e’ con il Kis Korut, la circonvallazione interna. Potreste girare a sinistra e trovarvi sulla destra la Sinagoga grande, la piu’ grande del mondo dopo quella di New York, ma la svolta a sinistra e’ vietata. Girate a destra. Dopo pochi metri vedrete il museo nazionale. E via fino in fondo, dove c’e’ Kalvin ter (piazza Calvino) e poi sulla sinistra il mercato centrale. Non lo descrivo, ma andateci. Oggi in tutto il mondo abbiamo i mall; il mercato centrale, sostenuto da una struttura in ferro all’avanguardia, e’ un mall ante litteram. Se andate avanti vi ritroverete ad attraversare di nuovo il Danubio, questa volta sul ponte di ferro Szabadsag Hid per poi trovarvi in zona Buda, davanti all’Hotel Gellert, dove sono le terme. Se alle terme non ci passate una giornata allora vuol dire che non vi volete abbastanza bene.

Potrei portarvi per mano in ogni punto di questa citta’. Non posso farlo perche’ sto scrivendo per uno spazio web e dello spazio non posso abusare piu’ di tanto. Di questa citta’ duale io amo Pest molto piu’ di Buda. Pest ha la piu’ antica metropolitana d’Europa, o almeno dell’Europa Continentale. Era illuminata con la luce elettrica quando altre metropoli neanche sognavano di esserlo. Potrei portarvi a vedere palazzi stupendi feriti dalla guerra e poi dai colpi dei carrarmati sovietici durante l’insurrezione del 1956. Potrei portarvi all’opera. Potrei portarvi a passeggiare sul viale Andrassy. Dovrei portarvi lungo il Danubio, magari di sera, magari in piazza Roosvelt, di fronte al ponte delle catene, illuminato e con vista sulla collina del centro storico di Buda.

I turisti amano Vaci utca, una Montenapoleone budapestina. Piaceva anche a Gorbaciov quando ci passeggio’ negli anni della Perestrojka. A me non piace. Preferisco il Nagy Korut, la circonvallazione grande, dove i negozi sono piu’ autentici. I giovani invece amano i centri commerciali come Mamut in piazza Mosca (Moskva ter) o come il West End. Io no.

Piazza Ferenc Liszt (Liszt Ferenc ter) e’ l’epicentro della vita notturna. E’ vicina all’Ottagono (Oktogon), epicentro della vita notturna negli anni trenta, quando Budapest stava alla Mitteleuropa come Parigi all’Europa Occidentale.

Vorrei portarvi sull’isola Margherita. Se in stagione, anche al Sziget Fesztival: Woodstock si puo’ replicare anche nel ventunesimo secolo perche’ il rock ha una capacita’ di attrarre gente da tutto il mondo come nessun altro genere e’ capace di fare. Vorrei portarvi anche piu’ lontano, fino al Balaton, non sulla riva Sud ma su quella Nord, soprattutto a Tihany e poi nell’interno. Perche’ l’Ungheria non e’ solo Budapest. Sopron per esempio, a settanta chilometri da Vienna, vale un viaggio e pazienza per l’invasione di attempati austriaci che ci vengono per cure dentarie a prezzi competitivi. Potrei allora portarvi anche a Godollo, la Versailles ungherese. Piu’ in la’ no, perche’ il tempo a disposizione, come lo spazio su queste pagine, non basterebbe.

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