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16 septembre 2010 4 16 /09 /septembre /2010 10:28

Pierluigi Mennitti, giornalista professionista, vive e lavora a Berlino. Anima il web magazine “East Side Report” ed il blog “Walking Class”.

 

L’addetta della compagnia di autobus che collega Cracovia, in Polonia, a Leopoli, in Ucraina, ci lascia nel dubbio: «Il servizio è fornito alternativamente da autobus polacchi e ucraini, ma non si sa in anticipo quale dei due partirà stasera. Quelli polacchi sono più moderni, quelli ucraini più vecchiotti e scomodi. Buona fortuna». Le compagnie di autobus che vendono biglietti per tutte le destinazioni d’Europa si contendono un largo spiazzo polveroso alle spalle della stazione centrale di Cracovia. Arrivando dal centro cittadino, devi entrare nell’androne della stazione, uscire sul primo binario, proseguire in fondo a sinistra, scendere per le scale, imboccare un tunnel che passa sotto gli altri binari e uscire dal lato opposto. Qui si apre lo spiazzo polveroso. La stazione degli autobus è ancora più avanti, un terminal costruito di recente, con una grande sala d’attesa, poltroncine e un tabellone elettronico sul quale scorrono numeri e lettere, orari e città. Ma i venditori di biglietti sono tutti addossati in questo piazzale, stipati dentro chioschi prefabbricati di lamiera dove si soffoca per il caldo (e d’inverno si gela per il freddo) e ventilatori da discount di periferia soffiano l’illusione di una brezza. È una via di mezzo fra un campo profughi abbastanza ordinato e un bazar turco meno folkloristico. «Buona fortuna», ripete l’addetta, dopo averci consegnato i biglietti del viaggio, un papiro grande quanto un lenzuolo, tirato fuori da una stampante ad aghi che farebbe la sua figura in una bottega di modernariato. Si chiama Agneszka, nome assai frequente da queste parti.

La Polonia è ormai un paese moderno, assieme all’Estonia il più avanzato fra quelli usciti dalla lunga notte del comunismo. Le agenzie che svolgono servizio verso i paesi dell’Europa occidentale hanno uffici più grandi e spaziosi, le migliori hanno traslocato nel terminal delle partenze e degli arrivi ed emettono biglietti lucidi e colorati da stampanti laser. Ma chi deve recarsi a est entra ancora in una sorta di macchina del tempo che lo rispedisce indietro di qualche decennio.

Seduti molte ore dopo di fronte al tabellone elettronico della sala partenze, lo sguardo si posa sugli altri viaggiatori in attesa. L’elenco segna ancora solo un paio di destinazioni, è naturale pensare che le persone sedute, a occhio non più di una ventina, saranno i nostri compagni di viaggio. È una compagnia piuttosto assortita: due anziane babuske ucraine, con foulard tradizionali e pesanti vestiti contadini, una coppia di anziani eleganti e distinti, un gruppo di uomini e ragazzi con la barba non rasata da qualche giorno che discutono ad alta voce fra di loro, un altro paio di coppie di mezza età vestite modestamente, sei ragazze solitarie che hanno l’aria di essere abituè del pendolarismo. Tutt’intorno fagotti, pacchi, scatoloni di prodotti elettronici, valige troppo grandi. Tutti hanno un’aria tranquilla, come di chi è abituato a percorrere questa linea. Quando un autobus scalcinato si affaccia nel piazzale delle partenze e imbocca esattamente il gate dove è indicata la nostra destinazione, ci ritorna in mente l’augurio di Agneszka. La roulette dei giorni incrociati non ci ha portato bene. Il mezzo è ucraino, e si vede.

È vecchio e malandato, verniciato di bianco con due bande laterali verdi attraverso le quali si insinuano lunghe striscie di ruggine. Dentro è ancora peggio. I sedili hanno la fodera usurata e i poggiaschiena rotti, bloccati o troppo in alto o troppo in basso, i braccioli allentati, il pavimento di linoleum lercio e consunto, le tendine di stoffa azzurra rigide per la polvere, stratificatasi in anni di onorato servizio sulle strade dell’ex Unione Sovietica. Allenati dalle esperienze delle gite scolastiche, ci fiondiamo nei sedili posteriori, mentre tutti gli altri prendono posto in quelli anteriori, evitando con cura i più malridotti. Pessima scelta, la nostra. Il motore è posizionato in fondo, ogni cambio di marcia è una frusta alla schiena e lì si condensa l’odore di nafta che fuoriesce dal serbatoio. Pazienza. Niente rovinerà l’euforia per l’avventura, anche se l’Ucraina ha deciso di presentarsi trecento chilometri prima del confine nella sua veste più sbrindellata. Quando l’autista chiude il portellone dei bagagli e sale sul mezzo per mettere in moto, tutti trattengono il respiro. Con consumata perizia infila la chiave nella toppa e prova a mettere in moto. Dal corpaccione cigolante dell’autobus viene fuori un grugnito non troppo convinto, subito soffocato in un angosciante silenzio. Ma il nostro conducente, un omaccione corpulento e baffuto che sa il fatto suo, non si dà per vinto e riprova con maggior convinzione. E al secondo colpo il torpedone si anima, i pistoni cominciano a tambureggiare, sebbene ognuno per fatti propri, la cinghia di trasmissione geme soddisfatta, le giunture frignano festose, le sospensioni sobbalzano accompagnando il ritmo, la marmitta rutta come un hooligan inglese dopo dieci pinte di birra e tutto l’autobus, passeggeri e bagagli compresi, traballa all’unisono come una sgangherata orchestra gitana. L’ultimo ostacolo è ingranare la marcia, ma il conducente lo supera con spavalda disinvoltura, ancora una raspata e ci muoviamo, sussultando come a un terremoto e lasciando le rassicuranti luci della stazione degli autobus di Cracovia. Una volta partiti, siamo anche certi che arriveremo.

Il viaggio notturno è un’esperienza in sé. I due fari sbiaditi del torpedone ucraino penetrano nel buio della campagna polacca, seguendo dolcemente le curve della statale che si insinuano nella notte galiziana. Il cielo è stellato, la temperatura scende, di riscaldamento interno neppure a parlarne, ci si rintana dentro i giacconi e i fiati dei passeggeri disegnano nuvole di vapore che in breve tempo appannano i finestrini. Scorrono così lattiginose, di tanto in tanto, le luci dei borghi polacchi che attraversiamo: Brzesko, Tarnow, Rzeszow, Jaroslaw, Przemysl. Dai vetri smerigliati si intuiscono i profili dei centri commerciali delle periferie e i grandi supermercati, i nuovi feticci del consumo che hanno omologato lo shopping anche in queste terre orientali, dove trovi le stesse marche di vestiti, oggetti e alimenti che puoi acquistare a Roma, Berlino e Parigi: prima di storcere il naso, conviene ricordare che, per chi fino a venti anni fa si doveva accontentare dei prodotti del mercato interno del Comecon, è comunque un passo in avanti. La classica fermata di ordinanza nella stazione di servizio concordata dall’autista serve a sgranchirsi le gambe, visitare la toilette (pulitissima), bere un pessimo caffè, respirare a pieni polmoni la rugiada dei campi galiziani e rimpiangere il tepore vaporoso di aliti e nafta dell’autobus. Si risale, mezz’ora di strada ed ecco il confine.

Questa è una frontiera seria. Qui finisce l’Europa dell’Unione, quella con la bandiera blu e le dodici stelle gialle in cerchio come le ore sul quadrante di un orologio che nel farsi unita s’è fatta fortezza. La strada si allarga, le corsie si moltiplicano, il traffico diventa di colpo intenso. Ai lati i grandi tir carichi di merci attendono l’espletamento di controlli che dureranno tutta la notte. In fondo, la dogana, una lunga teoria di caselli con le garritte, i soldatini, i poliziotti, i finanzieri e i funzionari statali. Sono le due e un quarto della notte, tutto intorno è buio come la pece, qui sotto i riflettori sembra di essere nel centro di una metropoli all’ora di punta. Si esce e si entra. Dall’altro lato della carreggiata, la fila è ancora più lunga, i controlli ancora più severi. Passiamo un’ora nelle mani dei doganieri polacchi. Salgono sull’autobus con le torce elettriche in mano, domandano, interrogano, frugano nei fagotti e nelle valige, scrutano accigliati i passaporti. Siamo gli unici cittadini dell’Unione Europea in tutto il bus e ce la caviamo da privilegiati con uno sguardo veloce al passaporto e un sorriso complice. Ci vergogniamo un po’, senza tuttavia comprendere perché ci voglia un’ora per controllare venti persone. Alla fine la sbarra si alza e si entra nella terra di mezzo. Pochi metri ed ecco la seconda dogana. Le operazioni sono identiche, solo che poliziotti, soldatini, finanzieri e funzionari hanno un’altra divisa. L’atmosfera è più rilassata, si sorride di più, si controlla di meno ma a noi “europei” viene riservato lo stesso trattamento di favore. La signora che controlla i nostri passaporti, una bionda cinquantenne tarchiata e simpatica, tira fuori il piccolo repertorio di italiano e accenna a un motivetto musicale del quale non andiamo particolarmente orgogliosi, una di quelle canzoncine che da noi nessuno più ascolta (e se lo fa, si guarda bene dal dirlo in giro). Però lei si diverte molto e noi teniamo bordone: sì, siamo italiani veri. Sul lato ucraino, tutto si svolge più velocemente, mezz’ora appena e abbiamo il via libera. Si sono fatte le quattro, dai finestrini ora spannati si guarda senza invidia la lunghissima fila di auto e camion in attesa di passare la frontiera in senso opposto, poi d’improvviso la carreggiata si restringe, le corsie diventano due e cominciano le buche.

Voragini profonde come su un campo appena bombardato. L’autista conosce i segreti della rete stradale ucraina, spesso rallenta, imbocca la carreggiata opposta, evita luciobattistianamente le buche più dure ma non può impedire che l’ultimo tratto di viaggio si trasformi in un giro di tagadà, con le sospensioni dell’autobus che sembrano a ogni colpo tirare l’ultimo respiro. Impieghiamo quasi due ore a percorrere i 70 chilometri che separano il confine da Leopoli, mentre le prime luci dell’alba smerigliano campi verdi e piccoli villaggi disposti lungo la strada e i neon dei tanti mini-market tipici delle vie di confine offrono punti di riferimento per traffici di ogni genere. La periferia di Leopoli è brutta, un tuffo al cuore di miseria e trascuratezza e la stazione degli autobus si trova proprio qui. Non è il biglietto da visita migliore della città, al contrario della stazione ferroviaria costruita in stile art nouveau e recentemente ristrutturata. Il padiglione centrale è una cadente struttura massiccia in cemento armato, al suo interno si muovono anime in pena appena tirate giù da sonni instabili, le luci sono flebili e smorte e si confondono con quelle lattiginose dell’alba. La biglietteria e l’ufficio di cambio offrono gli unici segnali di vita, un distributore automatico seduce con l’illusione di un caffè, un bancomat automatico vorrebbe suggerire l’irruzione della modernità: ma è fuori servizio.

Nel piazzale di fronte amici e familiari caricano sulle automobili i conoscenti appena arrivati, con le loro stanchezze e i loro bagagli, i tassisti offrono passaggi a prezzi che non siamo ancora in grado di valutare se siano convenienti o da truffa. Tutto si svolge in un’atmosfera ovattata, prevale il silenzio. È un mattino qualunque di un giorno qualunque e dai casermoni circostanti sciama lentamente per la strada l’esercito dei lavoratori ancora assonnati. Uomini di mezza età con giubotti di pelle, ragazze con spolverini dai colori troppo accesi, anziane signore infagottate in gonne pesanti, giovani orgogliosi nell’uniforme militare. Ci accodiamo dubbiosi alla fermata dei mezzi pubblici: il viaggio in zaino non prevede il lusso di un passaggio in taxi. Ci stringiamo in una mashrutka, una sorta di minibus diffusissimo in tutti i paesi dell’est, la numero 36 il cui itinerario promette di portarci in centro, dove ci attenderà un’altra Leopoli, quella elegante dei palazzi barocchi che richiamano le malinconie perdute della Galizia. Ucraina occidentale, oggi, il cuore di quella che fu la rivoluzione arancione, la porta verso occidente con i suoi giovani effervescenti e il suo isolamento indolente, una città al tempo stesso vivace culturalmente e asfittica economicamente, proiettata verso un futuro cui ancora non riesce a dare forma, forse neppure a immaginare. Qui si guarda a Varsavia e a Vienna, di Russia non si vuol neppure sentire parlare. La latina Leopoli, l’austriaca Lemberg, l’ucraina Lviv, la russa Lwow, tanti nomi per una unica città, nessuna identità precisa e centomila passati. Un crocevia di uomini portati e deportati dalle vicende storiche, da regimi che venivano e andavano, da confini che potenze più grandi hanno spostato a loro piacimento. Le cucine rimandano odori russi, di panna acida e zuppa di barbabietole, smetana e borsch, di burro soffritto che avvolge i pelmeni. La cucina originaria galiziana si è trasferita a occidente, assieme agli abitanti che i sovietici deportarono in Slesia e Pomerania per popolare le nuove terre polacche strappate ai tedeschi. È a Breslavia, oggi Wroclaw, che i ristoranti con nomi galiziani cuocciono i sapori della nostalgia leopolina. Questa città inquieta e malinconica è la prima tappa di un viaggio che ci condurrà fin nelle steppe orientali del paese. Siamo in Ucraina, da qui comincia un’altra Europa.

 

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