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16 août 2012 4 16 /08 /août /2012 12:39

Noi italiani usiamo impropriamente molte parole. Se provassi a stilarne l’elenco credo non mi basterebbero pagine e pagine. Una di queste e’ „levantino“.

E’ da quando ero bambino che mi hanno chiamato cosi’. „Levantino“ perche’ quando giocavo con gli altri per batterli non usavo la forza fisica ma mi sforzavo di entrare nel loro cervello capendo in anticipo quali sarebbero state le loro mosse, e anticipandole. „Levantino“ perche’ non riuscivo a capire da che parte fosse il torto e da quale la ragione, convinto che sia l’uno sia l’altra convivessero sempre. Chiamiamola attitudine alla mediazione dei conflitti, certo e’ che fin da quando ero piccolo mi stavano ad ascoltare ed io riuscivo a trovare soluzioni che accontentavano (piu’ o meno male, piu’ o meno bene) un po’ tutti. „Levantino“ mi hanno chiamato ai tempi della mia militanza politica giovanile, piu’ o meno per la stessa ragione. Il fatto e’ che insieme al latte, da neonato, ho succhiato una lezione: mai mettersi contro nessuno, mai innamorarsi troppo delle proprie idee e tanto meno pensare che siano migliori di quelle degli altri. E persino compiacere gli altri, anche quando d’istinto non lo si farebbe.

Quella parola, „levantino“ appunto, ha avuto e ha connotazioni spregiative, persino nella citta’ dove sono nato, la piu’ a levante fra le grandi citta’ italiane. E’ il momento di ribaltare tutto, o almeno di riportare le cose sul piano della realta’. Che significa allora, propriamente, „levantino“? Nel senso piu’ stretto, e’ levantino chi discenda da una famiglia veneziana, genovese o franca stabilita fin dai tempi della Quarta Crociata nelle terre di Levante, e cioe’ nei regni dei crociati, da Cipro alla Siria alla Palestina, ma anche a Costantinopoli, poi Istanbul. In casa il Levantino parla italiano, con gli altri nella lingua di ciascuno di loro, a scuola studia in francese. Sotto i Sultani i Levantini sono stati per secoli rispettati: erano quella che si potrebbe chiamare con termini moderni la borghesia produttiva. E di loro non si poteva fare a meno, cosi’ come non si poteva fare a meno di funzionari greci, di soldati slavi e naturalmente di comandanti ottomani. In tempi di guerre contro i Latini venivano utilizzati anche come interpreti, non solo per via della conoscenza delle lingue ma soprattutto per la capacita’ di capire sia le culture del Vicino Oriente sia quelle dell’Occidente: mediatori culturali, come si dice oggi. In tempi di pace era grazie ai Levantini se l’Impero poteva commerciare con il resto del mondo.

L’idealtipo del Levantino, nei fondachi genovesi o veneziani e piu’ tardi nei suoi negozi, era un commerciante che apparteneva a una minoranza ma che doveva avere rapporti d’affari con tante altre minoranze e con la maggioranza, in genere diverse per attitudini e comportamenti. Chi vive di commercio deve capire il cliente, anticiparne i bisogni, stare dalla sua parte e soprattutto fargli capire che sta dalla sua parte. Mai giudicarlo, mai dargli lezioni, mai rimproverarlo. Esercizio psicologico faticoso, ma che porta a sviluppare una dote molto poco diffusa, l’empatia. Visti dal di fuori, i comportamenti empatici possono sembrare comportamenti doppi e ipocriti, quando sono invece comprensivi, e non tanto per motivi etici ma pratici. Dal giudizio di doppiezza e ipocrisia all’uso del termine „levantino“ in senso spregiativo il passo e’ brevissimo. Pensiamo ad esempio al giovane Gritti, rampollo di una grande famiglia di Venezia vissuto ai tempi di Solimano il Magnifico: di lui avevano bisogno e gli uni e gli altri, fossero ottomani o cristiani latini. Ma di lui avevano paura sia gli uni sia gli altri, e le paure le proiettavano sullo schermo del disprezzo. E la parola „levantino“ divento’ piano piano (soprattutto in Occidente) carica di significati negativi.

La fine dell’Impero e i nazionalismi hanno dato un colpo fatale alla civilta’ levantina, che pero’ ancora sopravvive. I Levantini sono qualche migliaio in Turchia e qualche migliaio in Libano. Erano quasi centomila ad Alessandria d’Egitto nel 1956, al momento della ricoluzione nasseriana.

In senso piu’ esteso, „levantini“ si possono chiamare tutti i Cristiani d’Oriente, soprattutto quelli che vivono (o vivevano) nelle citta’ ed erano dediti a professioni mercantili. Quindi anche Greci e Armeni, e persino Maroniti. In effetti, ci sono molti tratti che avvicinano i Latini del Vicino Oriente con gli altri Cristiani della stessa area.

Io sono nato in una citta’ che e’ al margine estremo sudorientale dell’Occidente latino, e mi sento „levantino“ anche se non  lo sono in senso proprio. Parlo alcune lingue, non per farne una collezione, ma perche’ questo mi aiuta ad entrare nella psicologia di chi e’ nato in ambienti diversi, mi aiuta ad essere empatico. E’ un misto di istinto e ragione di autodifesa e di riconoscimento consapevole chemi suggerisce che  e’ meglio collaborare piuttosto che scrontrarsi con gli altri. Non ho mai capito che cosa significhi essere straniero, sto bene ovunque e anche qualche volta male ovunque, e benissimo a casa mia. Non ho mai capito perche’  esseri umani debbano dividersi e ammazzarsi fra loro per supposti ideali e ideologie invece di pensare a cose piu’ serie, per esempio a scambiarsi cose, esperienze e idee. Sto bene cosi’, se volete sono „doppio“ e dato il senso con cui mi sento „doppio“ sono fiero di esserlo. Qualche volta emerge il mio rammarico di appartenere a una citta’ che in senso ampio levantina era e che oggi si limita a coltivare la retorica della Prta d’Oriente.

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8 août 2012 3 08 /08 /août /2012 11:04

Domanda numero uno: da dove vengono i ricavi (e i profitti) di Facebook e di altre reti sociali? Risposta nota: dal traffico sulle  reti, che attira pubblicita'. Dunque: piu' traffico piu' pubblicita'   e piu' pubblicita' piu' ricavi (e profitti), cosi' come meno traffico meno pubblicita' e meno pubblicita' meno ricavi (e profitti). Domanda numero due: chi attira traffico sulle reti? Risposta: milioni di persone che senza alcun compenso producono quei contenuti che attirano traffico. Altro che "users", questi sono i produttori e le societa' che hanno le reti sono i redditieri. Prima conclusione: e se per un giorno, anche solo per un giorno, i produttori non pagati si astenessero dal produrre contenuti, quante persone in meno girerebbero per le reti sociali e da questo che colpo subirebbero le societa' che posseggono le piattaforme? Considerazione finale: non vi pare che sia arrivato il momento che quelle societa' rinuncino a una parte dei ricavi derivanti da quella che e' una rendita (come quella immobiliare, ma versione 21.o secolo) per redistribuirli a favore di chi produce?

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5 août 2012 7 05 /08 /août /2012 11:09

Insieme alle primavere politiche nel mondo arabo abbiamo avuto, e stiamo avendo, primavere economiche. Quale che sia infatti il segno politico delle primavere, quello economico mi sembra invece inequivocabile: le masse arabe si sono rivoltate contro il dirigismo degli autocrati, rivendicando il ruolo della societa’ nella costruzione delle condizioni dello sviluppo economico e mettendo in discussione il ruolo di Stati centralistici.

Ne ho avuto un segnale piu’ o meno un anno fa, per la precisione a Giugno del 2011, in una conferenza internazionale che si teneva in un centro congressi sulla costa di Cartagine, a pochi chilometri da Tunisi. La conferenza era organizzata dall’Unido, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale e dall’Agence Française de Développement.  C’ero come invitato a un panel di discussione e come coach di gruppi di lavoro dei partecipanti. La conferenza riuniva esperti dei tre Paesi del Maghreb ed esperti internazionali su la démarche cluster aux pays du Maghreb.

Pensavo di essere entrato in un territorio vergine e invece era straordinario notare il livello di consapevolezza nei confronti dell’approccio da parte dei partecipanti. Conoscevano le diverse esperienze di collaborazione competitiva fra imprese su base territoriale e sebbene il livello di aspettative sull’utilita’ dell’approccio fosse al limite del palingenetico, elevata era la conoscenza dei punti di forza e dei punti di debolezza delle esperienze concrete nei Paesi europei, a cominciare da quella dei distretti industriali italiani. Clima creativo e giudiziosamente critico.

Imparai molto in quella occasione, fu anzi un’oppportunita’ per scoprire cose che non erano solo obiettivi, ma concrete realizzazioni. I distretti industriali erano gia’ una realta’, per esempio, in Marocco, dove nell’area di Casablanca-Rabat si era formata una concentrazione di medie, piccole e microimprese che lavorano il denim per farne jeans; dove, in un’area piu’ a Sud, agricoltori e piccole industrie di trasformazione collaborano per assicurare personalita’ a un’extravergine locale; dove, nelle citta’ imperiali, i vicinati di artigiani evolvono in forme piu’ moderne per realizzare prodotti da esportazione e non solo ricordi per turisti. Mi colpi’ sentire che in Algeria attorno a una fabbrica di veicoli industriali si sta organizzando un sistema di piccoli subfornitori, cosi’ come apprendere che in una regione remota dello stesso Paese sta emergendo un distretto lattiero-caseario.  Ancora piu’ ascoltare le esperienze dei poli di eccellenza scientifico-tecnologica della Tunisia dove attorno a istituzioni universitarie e di ricerca si raccolgono startup. E tanti altri casi ancora. La lezione che ne traevo era una conferma di quanto da sempre gli economisti e i sociologi dello sviluppo ripetono: da aggregazioni di imprese basate sulla valorizzazione di saperi tradizionali viene una spinta alla crescita che parte dal basso e puo’ essere sostenibile; che le aggregazioni di piccole imprese locali sono un fattore di attrazione anche per gli invetsimenti diretti esteri, perche’ offrono un terreno di professionalita’ consolidate e di subfornitori che puo’ costituire un vantaggio localizzativo durevole e non limitato nel tempo come invece il differenziale del costo del lavoro. Ho definito il clima che respirai in quella settimana a Tunisi come creativo e giudiziosamente critico. Voglio sottolineare il secondo aspetto. Un tema che attraversava la Conferenza e finiva al centro dell’attenzione nei gruppi di lavoro  - io seguivo quelli algerini, altri colleghi quelli marocchini e tunisini, ma poi i rapporteurs di ogni gruppo si confrontavano in plenaria -   era quello della gestione dei cluster o distretti industriali che dir si voglia (questa non e’ la sede per affrontare dispute su definizioni). Si era oltre il „che fare“, e gia’ nel „come fare“. Venivano poste questioni come quella del ruolo dei cluster manager, della descrizione del loro job, dei relativi profili professionali e dei criteri di reclutamento, delle modalita’ di una loro contrattualizzazione, persino dell’ammontare dei salari e della natura di benefit eventuali. Per restare sul „come fare“ appariva chiara ai piu’ la differenza fra management e direzione strategica (comitati di distretto, o addirittura consigli di amministrazione di distretto), la necessita’ di inquadrarla con regole precise e la natura di tali regole. Grandi sforzi di chiarezza da parte di tutti, e buoni risultati.

I tre Paesi hanno tutti adottato strategie nazionali di sostegno allo sviluppo di cluster. A me sembra un fatto molto positivo, perche’ certifica l’interesse dei governi nei confronti di uno sviluppo dal basso e l’intenzione di assicurare uno sviluppo sostenibile nel medio e lungo periodo, sostenibile nel senso di non interamente dipoendente dagli IDE. Alcuni dei partecipanti, specie quelli che venivano da esperienze interamente generate dal basso, si ponevano il problema di quali potessero essere le regole per rendere compatibili esperienze gia’ in atto, tutte locali, con un quadro pre-regolativo o meta-regolativo nazionale. Tema non risolto. Ma affrontandolo si dimostrava che l’approccio cluster era tutt’altro che all’anno zero in quei Paesi. E che aveva oramai conquistato una diffusa legittimazione.

L’approccio cluster sta guadagnando consensi in altri Paesi del mondo arabo. In alcuni casi viene riconosciuto come strategico. Per esempio in Libano, dove al di fuori del gradualmente riconquistato ruolo della capitale come perno di un’economia terziaria basata su settore finanziario, costruzioni e turismo, resta il problema di aree sia rurali sia urbane che restano o sono diventate povere. Ma soprattutto nei territori palestinesi. L’Autorita’ Nazionale ha adottato l’approccio cluster come strategico, identificando nelle piccole imprese aggregate, non isolate ma radicate nel territorio, il motore della crescita economica. Ma anche nel West Bank non si parte da zero. Se infatti Ramallah non e’ certo la Sylicon Valley, e’ anche vero che proprio li’ sta nascendo un distretto delle tecnologie dell’informazione. I risultati gia’ ci sono, non parliamo solo di intenzioni: il settore dell’ICT conta ormai per il 5% sul totale del PIL dei territori.

Piu’ stabilita’ e piu’ democrazia saranno di aiuto, ma anche la crescita di imprese aggegate a radicamento territoriale contribuira’ a creare piu’ democrazia e piu’ stabilita’.

 

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Qui e’ il testo della mia presentazione alla Conferenza di Tunisi

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2 août 2012 4 02 /08 /août /2012 12:20

Ultimi capitoli della storia di una guerra che dura da centinaia di migliaia di anni, quella fra l’uomo e la zanzara.

 

Capitolo primo, anni Trenta del Ventesimo Secolo.

Il fascismo ci prova con le bonifiche: canali per drenare acqua che si spandeva in acquitrini, terre recuperate per fare la battagia del grano, poderi assegnati (mai capito perche’) a braccianti veneti nell’Oristanese e nell’Agro Pontino.  Niente da fare. Al calar del sole una fastosa iluminazione pubblica viene accesa su Littoria, ma per strada non gira nessuno, la gente si ritira in fretta in casa dietro le zanzariere. Il regime ha perso la battaglia contro il piu’ insidioso antifascista, l’anofele. Lo Stato si arricchisce con la vendita del chinino antimalarico, monopolio di Stato. Contro l’anofele ci prova anche la democratica Francia, con le bonifiche sulla costa orientale della Corsica. Niente da fare, nemmeno la democrazia piega l’insetto.

 

Capitolo secondo, seconda meta’ degli anni Quaranta

Nell’Italia liberata arrivano gli Alleati, e cosi’ anche sulle pianure costiere della Grecia e della Turchia. Gli alleati hanno in mano un’arma che promette di essere risolutiva, il DDT. E cosi’, invece che bombe, ora gli aerei lanciano paradiclorodifeniltricloroetano. Anofele in ritirata, in attesa di scomparire definitivamente. Scompare l’anofele, ma altre specie, rane, pipistrelli e alcuni volatili ricevono un colpo mortale. Peccato che siano anche grandi divoratrici di zanzare, cosi’ una lotta biologica alle zanzare in generale e non solo all’anofele e’ compromessa. Nelle zone irrorate compaiono cartelli che avvertono che sono state irrorate con DDT; ma non hanno detto che il DDT e’ innocuo per l’uomo? Dobbiamo aspettare un paio di decenni prima che si scopra che e’ una sostanza cancerogena e che ne venga proibito l’uso.

 

Capitolo terzo, giorni nostri.

Quello che il DDT non era riuscito a fare contro altre specie viventi riescono a farlo i pesticidi usati in agricoltura. Con un effetto perverso: le specie che divorano zanzare regrediscono, al contrario le zanzare sviluppano le proprie difese, evolvono e proliferano. Nel mio piccolo mi do da fare: introduco rane e costruisco casette per uccelli nel mio giardino, ma loro, le zanzare, sono imbattibili. Devono aver capito che nel giardino non tira aria buona per loro e cosi’ si ritirano in casa, dalla stagione della riproduzione in poi. Domenica scorsa a casa per un caffe’ viene una coppia di amici. Hanno addosso un odore vagamente simile a quello di un’acqua di toletta, direi non spiacevole. “Che vi siete messi addosso?” chiedo, e loro tirano fuori uno spray antizanzare. Guardo lo spray e l’etichetta mi dice che e’ citronella, ma anche che con la citronella ci sono altre cose chimiche che non mi danno fiducia. Dopo un’ora arriva un’altra coppia di amici. Questi sfoggiano braccialetti colorati, simili a quelli che ti danno quando vai a un festival rock, per circolare da uno stage all’altro. Sono persino carini e sembrano innocui. Lunedi’ vado in farmacia a comprarne due anche per noi. Guardo un’avvertenza impressa sulla scataola, “ non usare in ambienti chiusi” e mi passa la voglia di comprarne. Tutto sommato, meglio affrontare il nemico a mani nude: niente insetticidi, solo acchiappainsetti. E poi, incoraggiamento ai ragni, cioe’ divieto assoluto di rimozione di ragnatele imposto alla mia compagna e autoimposto a me. Pero’ sono tre giorni che una zanzara di notte scorrazza sulla mia pelle come antilope nella savana. E sia, accetto anche questo. Ma non che si sia appassionata al mio orecchio destro al punto da ronzarci dentro ogni giorno alle cinque della mattina. Pungi finche’ vuoi, le ho detto, ma almeno lasciami dormire.

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1 août 2012 3 01 /08 /août /2012 11:09

Questa e’ una piccola storia di una famiglia qualunque: un padre ostinato lavoratore, una madre protettiva, un figlio pigro e materialista, un altro studioso e ambizioso. Una famiglia come tante. Che importa che sia Rom?

 

Đole e’ un mio amico. Dovreste vedere (oltre che sentire) come suona la fisarmonica: e’ un autentico virtuoso dello strumento. Pero’ un giorno eravamo in gruppo davanti alla brace che arrostiva salsicce e Đole spari’ dalla circolazione. Ricomparve dopo un’ora con in mano l’astuccio di un violino. Lo apre, „“ci sta per coglionare“ dice un amico comune. E invece no. Altro che coglionamento, Đole prende l’archetto e comincia a suonare la csardas di Monti. Bene. Siamo ammutoliti e alla fine ci scambiamo baci sulla guancia, alla serba: tre a testa.

Đole e’ prima di tutto un musicista. Gira per matrimoni e resta a suonare anche fino alle tre di notte, fintanto che l’ultimo ostinato non si e’ alzato da tavola e se ne e’ andato, di solito barcollando. Dice di svegliarsi molto presto al mattino, di certo e’ che alle otto gia’ sento la sua voce alla radio. E si’, perche’ oltre che musicista Đole e’ anche comproprietario di una radio privata. La sua voce sparisce dalla radio prima di mezzogiorno. Io so che cosa sta per fare: e’ andato a casa, ha preso la sua Toyota Celica un po’ anzianotta, ha messo il cartello „taxi“ sul tettuccio e ha cominciato il suo terzo lavoro.

Con gli anni Đole si e’ abbastanza impinguito, ma pur avendo solo tre anni e tre giorni meno di me, dimostra almeno dieci anni di meno di me. Specialmente quando va per matrimoni, con la cravatta nera che sfinisce il suo fisico un po’ allargato.

Ha una bella moglie Đole, pure lei di aspetto decisamente piu’ giovane di quanto l’eta’ all’anagrafe dovrebbe mostrare. Lavora in una organizzazione non governativa (del „terzo settore“ si direbbe in Italia). E’ minuta e piccolina, con occhi neri. La loro casa e’ un prodigio di ordine e pulizia. La tengono in piedi bene, lei innanzi tutto, ma anche Đole, che quando e’ a casa non manchi di trovarlo con la spugna in mano a lavare piatti e tegami. Credo che faccia di piu’, perche’ una volta l’ho beccato con la mano destra sul manico di una scopa e la sinistra che impugnava un panno antistatico per togliere la polvere.

Hanno due ragazzoni. Il primo e’ adolescente, passa molto tempo su Internet e poco a studiare. „E’ irrecuperabile“ dice Đole. „Prima si e’ iscritto a una scuola per diventare macellaio, poi a una per diventare parrucchiere, e ora alla scuola agraria“. Il piu’ grande e’ davvero enorme, un volume pari a quello del padre e della madre messi insieme. Ingannato dalla sua mole, Đole si era messo in testa che per questo figlio il futuro piu’ promettente era quello di sportivo. Lo mandava al campo di calcio, l’ha mandato in uno degli innumerevoli campi da tennis. E invece nessun risultato apprezzabile. Come il padre, e’ attratto dalla musica. Mai studiata, ma davanti a una fisarmonica non resiste. E’ il contrario del fratello: legge e studia in modo accanito mentre la madre gli ripete che se continua cosi’ dovra’ comprarsi gli occhiali. Quando mi vede si attacca a me e non mi molla, vuole parlare di politica e di economia. Mi sembra versato in tutto, uno studente modello con molte idee originali in testa. E’ all’ultimo anno del ginnasio (equivalente a una nostra quarta superiore) e vuole andare all’universita’.  Quanto alla facolta’ dove iscriversi, non ha idee chiare: „per me vanno bene tutte, l’importante e’ continuare a studiare“. „A ragazze come andiamo?“ gli faccio ogni volta che ci vediamo. „Non ho tempo per quelle cose“, mi risponde. „Prima l’universita’, e poi, se capita ...; in questa casa alle ragazze si interessa mio fratello, e pure mio padre, ma quest’ultima cosa non la dire a nessuno“.

Đole e famiglia sono un prodigio di normalita’, se poi di normalita’ si puo’ parlare a proposito di uno che suona fino a notte fonda, passa ore al microfono di una radio e altre ancora alla guida di un’automobile, senza contare la sua collaborazione al mantenimento dell’ordine e della pulizia in casa. Đole e famiglia sono Rom, ma penso che se ne ricordino solo qualche volta. Forse soprattutto Đole, almeno nelle vesti di musicista e in quelle di comproprietario di una stazione radio che si rivolge soprattutto a un pubblico Rom. In casa parlano serbo, intervallato da frasi intere in romani e anche da qualche parola in ungherese. Il ragazzone grande a me si rivolge prevalentemente in inglese ma quando capita di parlare di cibo o di automobili o di vestiti fa sfoggio di qualche parola di italiano (pronunciato benissimo, e’ uno dei pochi che sappiano distinguere le consonanti doppie). Il piccolo con me si limita a una comunicazione primitiva: giusto due tre parole del genere buon giorno, buon appetito, arrivederci. Se il grande ha per me simpatia lui ha per me una autentica pur se malcelata avversione. Penso che mi detesti, come un po’ tutti gli adolescenti detestano gli intrusi nel nido familiare, anzi nel nido personale che nel suo caso e’ la sua stanza da letto, unica isola di disordine in tutta la casa. „Tuo figlio   - e sottolinea con la voce ’tuo’ -  fara’ una brutta fine“ dice e ripete Đole alla moglie e poi a me: „ho ragione? Ma tua figlia si comporta cosi’?“ Inutile spiegare a Đole la differenza fra un adolescente e una giovin signora in eta’ postuniversitaria. Meglio abbozzare, mentre invece la moglie reagisce come una chioccia cui abbiano rubato un pulcino.

L’altro giorno il ragazzone grande mi ha svelato il suo piano. Vuole andare all’universita’, mi conferma che non sa a quale facolta’ iscriversi, ma vuole andare alla Central European University a Budapest. Un lusso, ma ci sono le borse di studio e sono sicuro che vi avra’ accesso. Se ci riuscira’ dimostrera’ come l’elite gitana puo’ non essere fatta solo di musicisti ma anche di professori universitari e magari anche di giuristi, di politici, di diplomatici.

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30 juillet 2012 1 30 /07 /juillet /2012 20:39

Per fortuna non c’e’ solo Facebook. Per fortuna c’e’ la possibilita’ di usare altri canali per esprimersi, diversi da quella rete sociale dove inevitabilmente la ragione riesce a essere libera solo fino a un certo punto, minacciata da intrecci con vicende e sentimenti personali.

Il fatto.

Giorni fa Leonardo Spagnoletti, fra le teste pensanti piu’ brillanti della mia citta’ di origine, persona attenta ai fatti e commentatore razionale e informato di fatti, su Facebook ha scritto una frase che qui trascrivo e che non mi trova in accordo. Questa la frase, che riporto pedissequamente: „I radicali, anche se tra loro si chiama(va)no compagni, erano e rimangono estranei alla tradizione ideologica e culturale della sinistra, che in Italia si è identificata con il marxismo più o meno variamente declinato, ed erano parenti più o meno stretti invece del Partito d'Azione, del PRI, e anche del PLI”. Il contesto non era quello di un’analisi storica, la frase era lanciata incidentalmente in una discussione aperta su un tema molto circoscritto. Non voglio dunque esagerarne la portata. Mi ha pero’ colpito, e mi spinge a replicare. Come e’ mia abitudine, sempre per punti. Abitudine discutibile, ma certamente mia. Aggiungo che quello che scrivo nelle righe che seguono e’ tutt’altro che uno sforzo “scientifico”, ma tutt’al piu’ una collezione di considerazioni.

Le mie considerazioni.

La prima e’ che da quando lo spettro della politica si e’ diviso con chiarezza  fra conservatori e progressisti, e cioe’ dai tempi della Rivoluzione Francese in poi (in Italia da quelli della Repubblica Partenopea) non v’e’ mai stata una sinistra (campo progressista) al singolare. Per tutto il diciannovesimo e il ventesimo secolo abbiamo avuto una sinistra (e, parzialmente, anche una destra) neanche duale, ma plurale. Provo a riepilogare le diverse culture e spinte che hanno occupato il campo progressista, da allora in poi.

Direi che la piu’ “antica” e’ stata quella del socialismo umanitario, declinata in vari modi, ma sempre decisamente estranea ai fondamenti e agli insegnamenti dell’analisi marxiana. E’ stata secondo me molto importante quasi sempre, ma raggiunse il suo apice (anche in termini di consensi popolari e di egemonia culturale) quando si saldo’ con un’altra spinta (o cultura), quella del positivismo e dell’evoluzionismo. “Siamo tutti uomini, anzi tutti esseri viventi, dunque le differenze sociali  rappresentano una distorsione dell’ordine naturale, e dunque devono essere superate”. Questa spinta e’ indebolita dall’incapacita’ organizzativa dei leader della relativa area, ma e’ inconfutabile che i primi deputati socialisti eletti nel Parlamento del Regno (penso a Costa per esempio) era in questa corrente che si collocavano. Il progetto e’ di sviluppo di forme di mutualita’, in diversi campi.

Una seconda spinta viene da quella che secondo me e’ una conclusione estrema dell’individualismo liberale, appena mediata da soluzioni di tipo comunitario piu’ che societario, e comunque ostile in linea di principio a una regolazione dei rapporti sociali affidata allo Stato. E’ la spinta anarchica, che in Italia,e soprattutto in Italia Meridionale, paradossalmente (e cioe’ in contrasto con il fondamento individualista) da’ vita alle prime forme di organizzazione di massa degli esclusi.

Una terza spinta viene dal movimento risorgimentale-mazziniano. Presenta alcune analogie con le due precedenti (specialmente con la prima, ma declinata in forme piu’ ipostatizzate), ma anche significative differenze. Coltiva l’idea di popolo e di nazione come leva per la rivoluzione e l’internazionalismo come collaborazione fra popoli oppressi. Ha una tendenza al richiamo a dimensioni e motivazioni etiche prima ancora che di classe. Quest’ultimo punto, prima ancora che altri, la pone in decisa rotta di collisione con l’ordine cattolico-conservatore e quest’ultimo fatto, dai tempi della Repubblica Romana in poi, pone le premesse di un suo insediamento sociale e territoriale stabile in alcune terre dello Stato Pontificio, soprattutto in Romagna. Insediamenti che sopravvivono ancora oggi e che ancora oggi mantengono una rilevante capacita’ auto-organizzativa e rappresentano presidi fortemente identitari.

Una quarta viene dall’autoorganizzazione del movimento operaio nelle citta’ del Nord e di quello contadino soprattutto nelle zone di agricoltura capitalistica della Pianura Padana. Similmente a quanto avvenuto in Germania, e diversamente da quanto avvenuto in Inghilterra, il movimento operaio non da’ vita a un proprio partito controllato, ma si avvicinera’ progressivamente al partito della sinistra meglio organizzato, il nascente partito socialista. In Inghilterra e’ il partito che prende ordine dalle Unions, in Italia (come in Germania) accadra’ il contrario. Piu’ ancora del movimento anarchico, il movimento operaio sviluppa forme di mutualita’: il movimento cooperativo, tutt’ora forte nel NordItalia, e’ qui che ha le proprie radici. Il movimento operaio nasce come movimento antagonista, ma la sua organizzazione in sindacato e in cooperative fa emergere quadri e soprattutto dirigenti moderati. Nel Partito Socialista   - non sara’ un caso -   la componente di origine sindacale sara’ in maggioranza schierata sulla destra riformista.

Una quinta viene dalla sinistra radicale e repubblicana. Antisistema per ideologia (soprattutto per estremo anticlericalismo e odio verso la monarchia), si potrebbe, schematizzando ovviamente, dire che rappresenta la borghesia delle professioni liberali piu’ moderne ed anche parte del ceto imprebditoriale, soprattutto quello ostile alle barriere opposte al libero scambio internazionale. Guadagna consensi anche in certe aree del Sud, specie al tempo delle guerre tariffarie con la Francia. Ha progetti di modernizzazione e si oppone ai privilegi che lo Stato assicura all’industria del Nord, in specie a quella pesante (che non a caso si schiera decisamente a destra).

Una sesta e’ la componente marxiana, e dico marxiana e non marxista, perche’ nasce quando Marx e Engels sono ancora vivi, anche se dopo che l’esperienza della Prima Internazionale viene superata. La preoccupazione principale e’ la costruzione di un’organizzazione stabile, e di un partito come perno dell’organizzazione politica e delle organizzazioni sociali collegate. Fino al periodo del primo boom economico italiano (primo decennio del XX Secolo) e’ minoritaria. A sinistra ci sono gli anarchici, a destra (dentro lo stesso partito) riformisti e umanitari. Non riesce a controllare il movimento sindacale e operaio.

Tutte queste spinte sopravvivono ancora, e sono la ricchezza della sinistra, che puo’ attingere per la definizione dei propri programmi a tradizioni diverse. La particolarita’ italiana rispetto alla situazione inglese o tedesca (e che pone la sinistra italiana in una situazione piu’ simile a quella della sinistra francese) e’ che la sinistra italiana non e’ stata capace di costituire un partito unico, come invece nei due Paesi che citavo. E’ mancato il collante decisivo della mancanza di un “azionista di riferimento” come le Unions in Gran Bretagna per il Labour o di una burocrazia di partito con straordinarie abilita’ organizzative come la SPD in Germania.

Dopo le origini.

La mia idea e’ che in Italia le sinistre del XIX Secolo entrano con tutte le loro differenze nelle sinistre del XX. Il Partito socialista, almeno fino alla scissione del 1921, e’ il piu’ inclusivo. Al suo interno coesiste il socialismo umanitario, il socialismo marxiano (diversamente declinato), il movimento operaio. Dopo la scissione, parte degli insediamenti tradizionali passa in eredita’ al neonato Partito Comunista, ma anche dopo la parentesi fascista e la seconda guerra mondiale, il Partito Socialista (di Unita’ Proletaria) resta il partito meglio organizzato della sinistra. Il sorpasso da parte del Partito Comunista e’ piu’ effetto della Guerra Fredda che di fattori endogeni, su questo mi pare che gli storici si esprimano in modo unanime. Simona Colarizi ricorda anzi che subito dopo la seconda guerra mondiale e prima ancora che la guerra finisse gli americani puntassero molto a un’Italia governata da un partito di sinistra, puntavano molto sull’allora PSIUP, mentre a sostenere la destra monarchica erano gli inglesi. Il sorpasso avviene perche’ il PCI ha alleati stranieri mentre il PSIUP non accetta le mani tese dagli americani e si ritrova solo o dipendente dal PCI e dalle organizzazioni sociali che quest’ultimo comincia a controllare, anche per quanto riguarda le risorse finanziarie.  La diversa interpretazione della rivolta ungherese prima e l’avvicinamento del PSI (ex PSIUP) alla Democrazia Cristiana da un lato e il rifiuto del PCI a partecipare al centro-sinistra dall’altro scavano un fossato fra i due partiti a prevalente tradizione marxista. Ho usato l’aggettivo prevalente non a caso, perche’ nel PSI ma anche nello stesso PCI la tradizione marxista (e il modello organizzativo a meta’ fra quello della SPD tedesca e quello leninista) non esauriscono lo spettro delle posizioni presenti. Nel PSI ad esempio dopo l’esaurimento dell’esperienza del Partito d’Azione e’ proprio una parte dell’elite azionista che vi confluisce, andandosi a posizionare nell’ala sinistra del partito (penso ai lombardiani). Il PCI si rapporta ai non marxisti con una logica da Fronte Popolare pre-guerra. Costituisce la Sinistra Indipendente e fa eleggere nelle sue liste persone che vengono dalla tradizione laico-democratica (Altiero Spinelli prima di tutto) e dal liberalismo di sinistra gobettiano (penso a Galante Garrone, per fare un esempio). Ma anche all’interno del partito la cultura marxista non esaurisce  lo spettro delle posizioni individuali. La Cgil di Di Vittorio ha molta parentela con il sindacato riformista di inizio secolo, poca con altre tradizioni. Ha paura di finire controllata dai burocrati del partito e agli ordini di una potenza straniera, vuole essere azionista di maggioranza del partito, come le Unions lo sono nel Labour inglese.

Le componenti radicali e liberalsocialiste hanno un fortissimo sviluppo durante il periodo della dittatura, e contano su un’intellettualita’ di primissimo piano, con ottimi contatti internazionali e grande sostegno da parte delle democrazie occidentali. E’ la storia dei gobettiani, del socialismo liberale dei Rosselli, di Giustizia e Liberta’ e del suo ruolo primario durante la lotta armata di liberazione, del Partito d’Azione. La radicalizzazione Ovest contro Est riduce il bacino di consensi del Partito d’Azione e porta alla sua dissoluzione. Ma questa tradizione continua negli anni Cinquanta e fino a oggi. Negli anni Cinquanta l’eredita’ del Pd’A la raccolgono il Partito Radicale e il gruppo degli Amici de Il Mondo. Si tratta di nuclei di intellettuali, che pero’ conducono le sole battaglie davvero “di sinistra” che in quegli anni si possono osservare: contro i monopoli privati   - “i padroni del vapore” come diceva Ernesto Rossi - , contro l’oscurantismo clericale, contro la speculazione edilizia (“capitale corrotta nazione infetta”). Sono il motore di un movimento per la modernizzazione di un Paese in ritardo. Nel 1962, quando si costituisce il primo governo di centro-sinistra, gran parte di quest’area confluisce nel PSI, parte nel PRI. Resta una sparuta minoranza che di quella tradizione raccoglie il testimone: e’ il “nuovo” partito radicale,dove tra i “vecchi” resta Ernesto Rossi. Punta a una riorganizzazione complessiva della sinistra e gioca la carta dei diritti civili, efficace in una societa’ che con il benessere ha conosciuto la secolarizzazione. Su questo secondo punto vince: e’ a questa minoranza che l’Italia deve conquiste ccome il divorzio, la sconfitta dell’aborto clandestino, il nuovo diritto di famiglia, il diritto all’obiezione di coscienza. Per esperienza diretta, da dirigente radicale, posso affermare che nei confronti della sinistra marxista questa componente nutre complessi di superiorita’ (“la sinistra siamo noi, loro sono pronti ad allearsi pure con il Papa”).

La componente repubblicana (nel senso di PRI) ha ancora oggi in alcune aree del Paese le radici ben piantate nella storia della sinistra ed una organizzazione territoriale. Con l’arrivo dal Partito d’Azione di personaggi della “destra” di quel partito, Ugo La Malfa prima di tutto, attraversa una mutazione genetica che portera’ negli anni Sessanta il PRI lontano dalla tradizione mazziniana da Prima Internazionale per essere il partito della borghesia produttiva. Penso che anche questa componente abbia fatto battaglie davvero “di sinistra”, in primis quella per il libero scambio. La Confindustria degli anni Cinquanta, la Confindustria di Costa, quella degli industriali monopolisti che vivevano all’ombra di mercati protetti, ne ha terrore.

La tradizione anarchica si indebolisce nel XX secolo e subisce colpi psicologici fortissimi soprattutto a seguito dell’esito della guerra di Spagna. In Spagna aveva insediamenti e organizzazione robusti, ma la guerra civile la stritola in un conflitto che diventa sempre piu’ fra comunisti e nazifascisti. A mio avviso rinasce nella seconda meta’ degli anni Sessanta, quando l’individualismo anarchico si esprime nelle forme e con le motivazioni derivate dalla new left olandese prima (i provos) e americana poi (il movimento beatnik e contro la guerra in Vietnam). In seguito mi pare che una parte si disperda e parte invece confluisca nell’alveo radicale, attratta soprattutto dalle posizioni antimilitariste del partito. Il PR adotta, accanto al suo simbolo storico, la Marianna della Rivoluzione francese, il fucile spezzato del make love not war.

Quello che ho scritto non ha affatto l’ambizione di essere un saggio, ci mancherebbe altro. Niente riferimenti bibliografici per esempio. Prendetelo come una benigna provocazione. E soprattutto come un modo personale per sostenere che la sinistra in Italia e’ stata e resta plurale.

Il PD e SEL incorporano molte di queste tradizioni, le diverse sinistre. L’IDV e’ un’altra cosa, secondo me con la sinistra ha poco a che spartire. Non c’e’ da vergognarsi di nulla ad essere di sinistra, al contrario rendere trasparenti i legami con tradizioni progressiste plurisecolari puo’ risvegliare l’attenzione di cittadini rassegnati e mobilitarli. Azzarderei dicendo che lo stesso vale per la destra, se di coalizione per la difesa di certi interessi collettivi e valori si tratta e non di difesa di interessi corporativi o aziendali.

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23 juillet 2012 1 23 /07 /juillet /2012 12:30

Due miei cari e vecchi    - non in senso anagrafico  -  amici, Chicco Negro e Marco Barbieri, mi hanno invitato a esprimermi sulle rivoluzioni nel mondo arabo e in particolare sulla situazione in Siria. Ho accettato il loro invito, anche perche’ la discussione fra i due, con me per un po’ assente, stava diventando davvero suggestiva. Ai loro inviti e stimoli devo la spinta a  sintetizzare quello che penso della questione. Ne ho scritto sulla mia bacheca Facebook; oggi riprendo e parzialmente riformulo quello che avevo scritto. Mi esprimo in modo molto sintetico e sono consapevole dei limiti di questa forma di espressione, “modellistica”, come dice Barbieri. Ne difendo pero’ l’utilita’, se non altro come base per porsi ulteriori domande e soprattutto per guardare ai fatti dall’interno, in un contesto arabo piuttosto che internazionale.

 1.). - Le analisi prevalenti sono molto attente alle dinamichedelle relazioni fra potenze, ma mi sembrano disattente verso le cause che hanno determinato le rivolte (poi rivoluzioni) dell’ultimo anno , cause che mi sembrano prevalentemente endogene o "regionali". 2.). - Cominciamo col porci una domanda: che cosa ha spinto le masse arabe a risvegliarsi, dal tempo della rivoluzione tunisina dei gelsomini in poi? La mia esperienza diretta del mondo arabo e la cronaca dei fatti mi suggeriscono una risposta, e una sola: il desiderio di vivere meglio, di avvicinarsi agli standard europei. 3.). - la rivolta  si e' indirizzata contro oligarchie, non immediatamente perche' non garantissero liberta' di riunione e di espressione, ma perche' ritenute (a ragione) rapaci, interessate al controllo monopolistico del potere allo scopo di mantenere il monopolio delle risorse, senza redistribuirne neppure una parte o nei casi migliori redistribuendone le briciole. 4.). - Il successo della rivolta, poi "rivoluzione" dei gelsomini ha determinato un meccanismo imitativo ("i tunisini ci sono riusciti, vuol dire che possiamo riuscirci anche noi"). 5.). - Le oligarchie contro cui le rivolte (poi rivoluzioni) si sono mosse avevano messo in piedi Stati secolari e promosso la secolarizzazione dei costumi, mantenendo al contrario uno stretto controllo statale dell'economia. Le rivoluzioni hanno dunque preso un colore che e' sembrato sempre piu' evidente: contro lo statalismo in economia (identificato come controllo assoluto delle risorse da parte di minoranze) e contro la secolarizzazione (o i suoi aspetti giudicati come eccessivi) , perche' ritenuta strumento del potere oligarchico. 6.). - il modello di organizzazione dello Stato e della societa' che si e' andato affermando come obiettivo delle rivoluzioni e' dunque un misto di economia di mercato e di ritorno alle tradizioni nel campo della morale, dei costumi e della legge. Esattamente il modello di certe monarchie del Golfo, e questo spiega il sostegno convinto e il supporto finanziario da parte soprattutto del Qatar. 7.). - Nei Paesi dove la rivoluzione si e' conclusa (o se ne e' conclusa la prima fase) si e' andati a elezioni. Vincitori ne sono usciti i partiti islamici moderati, che meglio incarnano quel mix di cui dicevo. Fatte le dovute proporzioni, i partiti dei fratelli islamici, sono simili alla Democrazia Cristiana italiana degli anni Cinquanta: liberismo in economia e rigidita' nei costumi e nelle leggi. Quello con cui un giorno dovranno fare i conti e' che lo sviluppo economico produce inevitabilmente secolarizzazione, ma questa volta dal basso, non imposta dall'alto, e dunque non contrastabile. Si troveranno, dove fra dieci dove fra venti anni, nella stessa situazione della DC italiana negli anni Settanta, che non capi' che la battaglia contro il divorzio (e altre battaglie contro i diritti civili) in una societa' diventata piu' benestante sono battaglie perdute. 8.). - La particolarita' della Siria e' che la battaglia delle masse contro l'oligarchia si intreccia con fattori religiosi, perche' l'oligarchia e' in massima parte alawita in un Paese sunnita. Alla fine, anche chi decide in linea di principio di riservarsi un ruolo di spettatore deve schierarsi. Viene in questo modo meno una risorsa che sarebbe preziosa: quella dell'esistenza di un gruppo di potenziali mediatori (per esempio la consistente ancorche' divisissima minoranza cristiana); non e' un caso secondo me che anche una citta' multiconfessionale come Aleppo, scampata per un anno alla guerra civile, sia ora anch'essa teatro di combattimenti (per non parlare di Damasco). 9.). - C'e' in questo qualcosa di simile a quello che accadde in Libano durante la guerra civile, e specialmente fra il 1977 e il 1979, quando a scambiarsi colpi (diciamo cosi') non erano cristiani e musulmani, ma musulmani sciiti e musulmani sunniti, con i primi nel ruolo di masse diseredate. 10.). - La guerra sta inevitauilmente provocando esodo di popolazione verso il Libano. Non e' la prima volta che nella storia del Levante un afflusso di rifugiati determina destabilizzazione degli equilibri di un Paese in sempre precario equilibrio interconfessionale. Speriamo bene. Per il bene del Libano, terra che mi e' oltremodo cara.

Marco Barbieri mi ha poi contestato l’applicabilita’ di questo modello al caso del Bahrein, e indirettamente l’utilita’ del modello stesso. Io penso che ogni modellizzazione abbia tutti i limiti della semplificazione. Serve piu' che altro a sollevare ulteriori interrogativi piu' che a fornire certezze interpretative. O almeno come tale personalmente la intendo e ne faccio uso.  Nel merito, confesso di avere qualche dubbio sul modello stesso, e mi stupisce che questi dubbi non siano stati sollevati dai miei due interlocutori. Ne’l’uno ne’ l’altro hanno  attaccato la mia "modellizzazione" su quello che mi sembra invece il principale punto di debolezza, e cioe' l’assegnare troppa importanza a fattori economico-sociali, e di striscio a fattori socio-culturali, e poca o nulla a fattori strettamente culturali o spirituali.

Ma veniamo ora al Bahrein, per capire se il contesto specifico sfugge o meno alla "modellizzazione". Riassunto preliminare. Il Bahrein e' stato il primo Stato del Golfo ad avere esaurito le proprie riserve di greggio, dopo essere stato il primo ad averle sfruttate massivamente. La questione della riconversione dell'economia da oliocentrica a diversificata si e'posta dunque con largo anticipo rispetto a tutto il resto dell'area. Alla meta' degli anni Sessanta, quando Dubai era solo la vecchia citta' di impronta arabo-portoghese di sempre, Manama era gia' una citta' moderna, tollerante e pluralista. La Corniche di Manama era animata e piena di segni di opulenza quanto quella di Beirut prima della guerra civile. Con largo anticipo su altre monarchie del Golfo, quella del Bahrein ha giocato la carta della terziarizzazione dell'economia. Carta ben giocata, che ha portato non solo al mantenimento degli standard di vita conseguiti nella fase oliocentrica, ma a un loro incremento. Il problema e' che i dividendi del conseguito (anzi consolidato) benessere non sono stati redistribuiti. Negli altri Paesi del Golfo la rendita petrolifera e' stata redistribuita secondo una logica che oserei chiamare da "socialdemocrazia dall'alto": welfare e istruzione superiore (anche all'estero) gratuita per tutti in nome di obiettivi di stabilita' sociale. Nell'arcipelago no, o almeno non nella stessa misura. Si e' creato cosi' uno iato fra la maggioranza della popolazione e una minoranza. Sotto questo profilo la situazione non e' diversa da quella di altri Paesi del mondo arabo: da una parte un'oligarchia, dall'altra tutti gli altri. Certo, la condizione dei "poveri" in Bahrein non e' nel modo piu' assoluto paragonabile a quelle dei poveri nei Paesi del Maghreb, ne' tanto meno dei poverissimi in Egitto. Ma il paradigma "rivolta dei poveri contro una oligarchia" regge, anche se bisogna riconoscere che in fatto di diritti politici l'oligarchia del Bahrein e' stata sempre piu' illuminata.E adesso immaginiamo di stare sul ponte autostradale che collega la terraferma saudita con l'arcipelago. Nel fine settimana. Il traffico e' intensissimo, in direzione dell'arcipelago. I sauditi (sunniti wahabiti) cercano (e sanno di trovare) nell'arcipelago quello che a casa non hanno: atmosfera rilassata, cantanti libanesi, bei ristoranti internazionali, contatti con stranieri, il grande circo della formula 1 e altre cose che qui non cito. Trovano quello che cercano, e per questo tornano e ritornano in un Paese che e’ la Montecarlo della penisola arabica, cosi’ come Dubai ne e’ la Singapore. Cercano e trovano cose che invece la maggioranza dei cittadini dell'arcipelago non puo' permettersi altrettanto agevolmente. E questo e’ un elemento che rafforza le tensioni. Le tensioni sono complicate dall'elemento religioso: la maggioranza meno affluente della popolazione e' sciita, ma la monarchia e' sunnita. Una situazione simile a quella della Siria, a parti invertite pero' e in un contesto certamente molto piu' democratico e da non sopravvalutare. Un ulteriore elemento racchiude un potenziale di tensione: la maggioranza sciita ha condizioni di vita piu' modeste di quelle di tanti stranieri, per esempio dei direttori di banca o dei direttori di albergo o ristorante immigrati dal Libano, o dei medici e dei professori immigrati dalla Palestina. Anche nel caso del Bahrein le analisi prevalenti (almeno in Occidente, ma anche in Russia) mettono l’accento sulla dinamica delle relazioni fra potenze. Non credo che sia un elemento da sottovalutare,  e d’altra parte non e’ un caso se nella fase piu’ critica nell’arcipelago siano intervenuti i Sauditi e che lo abbiano fatto per scongiurare una saldatura fra l’elemento sciita locale e lo sciita Iran. Io resto invece piu’ convinto che i fattori endogeni meritino molta piu’ attenzione: per capire quello che succede in questo (come in qualsiasi altro) angolo del mondo credo sia innanzi tutto utile capire interessi, disagi e aspirazioni di chi ci vive

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17 juillet 2012 2 17 /07 /juillet /2012 10:29

Se bene ho capito, quando il leader dell’UDC parla di „temi etici“ si riferisce a diritti riconosciuti nella gran parte dell’Europa ma non in Italia. Omette solo di sottolineare questa ennesima anomalia italiana, anzi pare che la rivendichi come anomalia positiva. Esclude che tali temi possano essere oggetto di trattative nella costruzione di alleanze politiche. A modo mio gli do ragione: non devono essere oggetto di trattative, perche’ non di oscuri „temi etici“ si tratta, ma di inalienabili diritti dell’uomo in quanto essere vivente, prima ancora che dell’uomo come cittadino. Il diritto di ciascuno di decidere con chi e come costruire il proprio futuro non ha niente a che fare con il modesto confronto fra partiti, e’ un diritto che non ha da essere discusso ma semplicemente riconosciuto, per quella parte che riguarda i suoi riflessi sulla sfera di quanto ha per forza di cose da essere disciplinato per legge. Questione di diritti umani e percio’ civili, ma anche di diritti sociali: perche’ mai l’accesso a questo secondo tipo di diritti dovrebbe passare attraverso un filtro che discrimini in base al sesso o alle preferenze sessuali, alla religione, alle convinzioni morali? Questione anche economica, per stare terra-terra. Escludere una parte dei cittadini dal godimento di questi diritti comporta da parte della societa’ rinuncia (parziale e in certi casi totale) al contributo che essi danno al benessere collettivo, ovvero esclusione degli stessi dalla posssibilita’ di contribuire al benessere collettivo. Spreco di risorse. Considerarli cittadini di seconda serie equivale a negare un principio base del corretto funzionamento dell’economia, l’eguaglianza dei punti di partenza fra i diversi soggetti, siano essi a diverso titolo produttori e/o consumatori.  Eguaglianza dei punti di partenza che e’ principio di efficacia e di efficienza.

In gran parte del resto d’Europa queste cose non si discutono neppure (altro che essere oggetto di possibili o negate trattative fra parti politiche!): semplicemente sono parte del patto naturale fra esseri umani su cui si regge la societa’, del patto fra cittadini su cui si regge il funzionamento dello Stato, del patto sociale fra soggetti economici su cui si regge il funzionamento dell’economia. Punto e basta.

Le cronache di questi giorni attirano la mia attenzione anche su un secondo fatto: gli attacchi alla presidente Bindi. Sulla volgarita’ e il provincialismo culturale di quel tipo di attacchi concordo con i giudizi del segretario Bersani. Come faccio pero’ a dimenticare che la presidente, tradendo anche il suo ruolo di presidente e dunque di soggetto super partes, non ha messo ai voti la risoluzione proposta da Paola Concia sui matrimoni fra soggetti dello stesso sesso?Lasciamo stare, per dirla con le parole che mi suggerisce un amico. E sia, lasciamo stare, accontentiamoci di restare un Paese anomalo, immaturo, e che gioca contro se stesso.

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5 juillet 2012 4 05 /07 /juillet /2012 11:31

Quando ho tempo, ma anche quando non ne ho o ne ho poco, vado a trovare Branko. Branko ha fatto per una vita il professore di matematica in un ginnasio di Belgrado. Dicono che fosse adorato dai suoi studenti. Da cinque anni e’ in pensione e ha lasciato la capitale per andare a vivere in un villaggio vicino a Kragujevac, dove e’ uno dei piu’ importanti stabilimenti della Fiat in Europa. L’effetto-Fiat non arriva pero’ fino li’. Per ora niente ristoranti sedicenti italiani, poche automobili nuove, niente boom delle costruzioni. Li’ si vive piu’ o meno come prima, che poi vuol dire piu’ o meno come sempre.

Questi sono appunti da una delle tante giornate che passo con Branko a casa sua.

Branko adora giocare a scacchi, come quasi tutti i serbi del resto. Se vivesse in Italia sarebbe considerato un campione, qui e’ nella media. Un livello comunque irraggiungibile per me. Lo trovo come al solito seduto davanti al tavolino sulla veranda, la scacchiera davanti e il suo avversario di fronte. Avversario che e’ poi il medico della zona, di almeno vent’anni piu’ giovane di lui e persino piu’ bravo di lui nel gioco degli scacchi. Un salutista, di quelli che ti fanno venire sensi di colpa solo all’idea di accenderti una sigaretta. Che infatti non mi accendo, a dispetto di ore di astinenza dovute alla guida (non fumo in macchina, almeno se a guidare sono io) e di una voglia irrefrenabile di nicotina.

Stanno giocando, ma quando mi vede Branko lascia la partita, si alza e mi bacia alla serba: tre baci sulle guance, alternando destra e sinistra. Ricambio. Niente baci dal medico, ma solo un poštovanje, come dire „i miei rispetti“, accompagnato da una stretta di mano. Anche in questo caso ricambio. „Non smettete di giocare   - dico -   resto a guardare fino alla fine, chissa’ che non impari qualcosa“. E invece le strategie che stanno dietro allle mosse non le capisco, come sempre.  La mia compagna, intanto, si e’ allontanata con Sanja, la moglie di Branko. Anche Sanja e’ in pensione, dopo trentacinque anni passati a fare il contabile in un’azienda municipale. Branko e Sanja hanno un’aria rilassata.

La partita finisce. Ha vinto il medico, come quasi sempre. Si alza e se ne va con qualche commento sugli errori che avrebbe fatto Branko. Con me si congeda con un normale arrivederci e buona continuazione. Branko e’ diventato un altro uomo. Aiutato dalla sua corporatura minuta e agile scatta via come uno scoiattolo facendomi segno con la mano sinistra di aspettarlo, di non alzarmi dalla sedia. Dieci minuti e torna con un tagliere di legno, un  generoso pezzo di pancetta affumicata, un coltello, una bottiglia di quelle di una volta e due bicchierini. Comincia il rito di benvenuto, favorito dal fatto che il medico salutista se n’e’ andato. Coltello in mano e alternandoci dobbiamo tagliarci fette di pancetta. La bottiglia non e’ innocente: contiene un’acquavite di pere fatta da lui. „Andiamo a fare una passeggiata“  - dico io dopo un po’, per sviare, cioe’ per evitare di alzare di troppo il livello del colesterolo e di finire sul divano a dormire.

Sulla strada incontriamo gente. Quasi tutti vecchi o maturi. Neanche un bambino, eppure non e’ ne’ giorno ne’ ora di scuola. „Qui di bambini non ce ne sono. E chi vuoi che li faccia, gente come me e Sanja? Qui io e lei siamo fra i piu’ giovani. La vedi quella?  - e indica una vecchia seduta davanti alla sua casa con un fazzoletto in testa  - quella e’ Baba Milica (nonna Miliza), la piu’ vecchia del Paese; dice di avere novant’anni, ma io penso che si tolga gli anni. Mio padre, quello che aveva costruito la casa dove ora abito e dove sono nato io, diceva che da giovane era una ragazza bellissima. Ha avuto sei figli e non so quanti nipoti, ma ha solo due bisnipoti. Bela kuga[1], ecco il problema che abbiamo, in quesro Paese nessuno fa piu’ figli“. Gli rispondo snocciolandogli i numeri dei tassi di natalita’ in Italia, in Grecia e in Spagna: qui in Europa meridionale abbiamo tutti questo problema, stiamo diventando Paesi popolati da vecchi.  „E poi    - continua lui -   quelli che i figli possono farli o sono nella capitale o sono all’estero. Vengono qui solo il venerdi’ sera e se ne vanno la domenica pomeriggio, fanno il pieno di uova, carne, conserve, c’e’ qualcuno che addirittura viene col carrellino. Ti e’ piaciuta la slaninica?“  (la pancetta, anzi, per la precisione la pancettina) „beh quella l’abbiamo fatta noi; io e il vicino avevamo comprato insieme un maiale, lo abbiamo fatto macellare, nel sottotetto abbiamo appeso ad affumicare le parti da affumicare e abbiamo da mangiare carne per mesi e mesi. Lo sai quanto costa la pancetta se la compri al supermercato? Mille dinari[2] al chilo mi dicono, ma non giuro che sia cosi’, io al supermercato non ci vado mai“. Forse esagera.

„La signora“ (la chiama proprio cosi’, e si riferisce alla moglie) „mi manda a comprare il pane, e’ fra le poche cose che compriamo, il resto e’ roba nostra; vieni, andiamo al forno“. Al forno c’e’ un odore stupendo di pane e altri prodotti da forno. Nonostante la pancetta mi si sta scavando un buco nello stomaco. Addenterei volentieri quella specie di baguette che Branko ha comprato, e’ ancora calda, per me irresistibile.

Eccoli. Appena fuori dal forno li vediamo. Sono tre. Finalmente vediamo bambini. „Sono i figli di Dragan e di Vesna – spiega Branko. „I due vivevano a Belgrado. Dragan disoccupato quasi a vita, Vesna cassiera in un supermercato. Una vita difficile, per anni, e niente figli. Un giorno Vesna ha preso la situazione in mano e lo ha convinto a trasferirsi a casa dei suoi genitori. Una casa vuota, i genitori se n’erano andati all’altro mondo, chi da due anni, chi da piu’ di due. Sono arrivati una sera, dopo l’imbrunire, come dei ladri. Nessuno li conosceva o riconosceva. Mezzo paese ha chiamato la milizia, sono arrivati, hanno controllato e hanno scoperto che avevano pieni titoli per sistemarsi in quella casa. Il giorno dopo era una gara a chi per primo sarebbe entrato a casa loro, alla fine abbiamo dato la precedenza al pope. Tutti noi con qualche cosa in mano, il nostro benvenuto ai nuovi compaesani. Da quando quelli  sono qua gli e’ passata la bela kuga: tre figli, quelli che hai visto. Dragan lavora il mezz’ettaro di terra che hanno. Vesna va in citta’ in bicicletta per fare la cassiera, come a Belgrado. Secondo me a mala pena mettono su 20-25.000 dinari al mese, ma hanno i cugini a Graz che mandano soldi“. Accarezzo la testa del piu’ grande. „Come ti chiami?“   - gli chiedo – „Saša“ risponde.  „Saša, ma non hai voglia di andare a Belgrado?“ E Saša: „Che cos’e’ Belgrado?“ Chissa’ se rispondera’ cosi’ anche quando sara’ diventato un po’ piu’ grande.

 



[1] Letteralmente: peste bianca. Espressione che indica bassa natalita’.

[2] All’incirca dieci euro.

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29 juin 2012 5 29 /06 /juin /2012 20:09

Non grande ne’ piccola: con una superficie di 130.647 chilometri quadrati la Grecia si colloca al 97.o posto nel mondo, praticamente a meta’ classifica. Decisamente piu’ piccola della vicina Turchia, decisamente piu’ grande di Albania e  Macedonia e appena piu’ grande della Bulgaria. Solo un quinto del territorio e’ arabile; in Bulgaria un terzo. Nel complesso il clima e’ caratterizzato da estati molto calde e con totale assenza di precipitazioni, ma le stagioni di mezzo possono essere molto umide nella sezione occidentale del paese, soprattutto nelle isole dello Jonio, mentre gli inverni tendono ad essere molto rigidi nel Nord-Ovest (catena del Pindo). Protagonista assoluto del paesaggio sono le montagne, che lasciano spazio a piccole pianure costiere sulla fascia jonica del continente e del Peloponneso ed alla piana della Tessaglia, unica eccezione di una certa rilevanza. L’orografia ha rappresentato a lungo l’ostacolo principale allo sviluppo di infrastrutture di comunicazione e marcato l’isolamento economico di vaste sezioni del Paese. Per contro, ha rappresentato nei secoli una spinta allo sviluppo delle comunicazioni marittime e delle attivita’ portuali, a lungo l’unica vera „industria“ della Grecia.

 

Sotto il profilo demografico la Grecia si puo’ considerare un Paese di taglia media. Vi abitano 10,7 milioni di persone, cosa che colloca il Paese al 78.o posto nel mondo. La scarsezza di risorse e di opportunita’ da un lato e lo sviluppo di attivita’ amministrative e commerciali nei due principali poli urbani (conurbazione dell’Attica e Salonicco) ha determinato a partire dagli anni Sessanta flussi intensi di immigrazione interna, che si sono risolti in una crescente concentrazione della popolazione nei due centri maggiori e in uno spopolamento di quasi tutto il resto del territorio. I dati del servizio nazionale di statistica rilevano che il 61% della popolazione vive in aree urbane, ma quello che va sottolineato e’ che da sole le due aree urbane maggiori ospitano il 40% della popolazione. Solo con lo sviluppo delle attivita’ legate al turismo si e’ osservato, a partire dagli anni Ottanta, un apprezzabile movimento migratorio dalle citta’ verso le isole. Il saldo migratorio con l’estero e’ stato per secoli negativo. La diaspora greca si dirigeva soprattutto verso le grandi citta’ del Mediterraneo Orientale e del Mar Nero e i greci, cosi’ come gli ebrei sefarditi emigrati dalla Spagna, costituivano l’ossatura della classe dirigente amministrativa e della borghesia nell’Impero Ottomano. Dalla fine dell’Ottocento in poi l’emigrazione greca si e’ diretta prima verso le Americhe e poi, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, in Australia e nei Paesi dell’Europa Occidentale, soprattutto in Germania e Svizzera. Valutazioni davvero attendibili sul numero di ellenofoni o discendenti di ellenofoni con passaporto diverso da quello greco non esistono. Stime ne collocano il numero fra i quindici e i venti milioni. Fuori dalla Grecia ci sarebbe dunque una seconda Grecia, piu’ o meno due volte piu’ grande. Dai primi anni Novanta del secolo scorso la Grecia ha cominciato a mostrare saldi migratori positivi, parzialmente per effetto di piccole migrazioni di ritorno ma soprattutto per flussi sempre piu’ consistenti di immigrazione straniera, principalmente dall’Albania e dai Paesi dell’ex-Unione Sovietica, ma anche da Paesi dell’Asia Meridionale. Gli stranieri ufficialmente registrati come legalmente presenti sono il 7% della popolazione (2010), il che da un numero superiore agli 800.000, che non tiene conto dei clandestini. Gli immigrati provenienti dall’Albania sono oggi in generale bene integrati e lavorano nei servizi e nell’industria delle costruzioni. Critica invece la condizione degli immigrati da Paesi dell’Asia Meridionale. La Grecia condivide con altri Paesi dell’Europa Meridionale una bassa natalita’: 9 per mille nel 2011, con questo occupando la 206.a posizione nella relativa classifica internazionale (Spagna 10,4 per mille; Serbia 9,2 per mille; Italia 9,1 per mille).

La natura non e’ stata generosa con la Grecia e si potrebbe dire qualcosa di simile riguardo alla storia. La Grecia occupa pero’ una posizione geostrategicamente cruciale. E’ lungo l’asse Suez-Gibilterra, vitale per i trasporti marittimi container fra la Costa Atlantica del Nordamerica e l’Asia Orientale , ed e’ sulla rotta fra il Mediterraneo e il Mar Nero. La prossimita’ fisica e culturale e i successi economici degli ultimi decenni hanno poi accresciuto il prestigio del Paese in parte dei Balcani. Prestigio che resiste, a dispetto delle difficolta’ economiche degli ultimi anni e di dispute internazionali con alcuni vicini, principalmente con la FYROM (Macedonia). La Grecia occupa posizioni di primo piano in Paesi come la Serbia o la stessa Macedonia, sia come partner commerciale sia per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri.

La Grecia e’ membro dell’OCSE, appartiene dunque al club dei Paesi piu’ sviluppati del pianeta. Il PIL, calcolato in PPPs, e’ di 308,3 miliardi di dollari (2011), il che la colloca al 41.o posto nella relativa classifica internazionale. E’ in contrazione negli ultimi tre anni: era di 328 miliardi di dollari nel 2010 e di 339,9 miliardi di dollari nel 2009. Il PIL per abitante e’ di 27.600 dollari (sempre in PPPs, 2011), il che la colloca nel gruppo dei paesi piu’ ricchi dell’area Mediterranea (Israele 31.000; Spagna 30.600; Italia 30.100; Cipro 29.100; Slovenia 29.100; Malta 25.700). Gli squilibri sono soprattutto fra grandi citta’ e Nordovest, la sezione piu’ povera del Paese. E’ in caduta: nel 2009 era di 30.400 dollari: per sintetizzare si puo’ dire che i Greci in soli tre anni sono diventati sensibilmente piu’ poveri. Un quinto dei Greci era gia’ sotto la soglia della poverta’ nel 2009. La struttura dell’economia evidenzia l’esiguita’ della base industriale: l’industria conta per solo il 17,9% del PIL (2011) il che si riflette in un forte deficit della bilancia commerciale: nel 2011 il Paese ha esportato per 28,64 miliardi di dollari, mentre le importazioni sono state in totale di 65,79 miliardi. Gli investimenti fissi lordi ammontano al 14,7% del PIL (2011): un valore che colloca la Grecia solo al 136.o posto nella relativa classifica internazionale. La Grecia ha bisogno di investimenti diretti esteri: lo stock di IDE, stimato al 31 Dicembre 2011, era di 35,76 miliardi di dollari (57.a posizione nel mondo). La condizione della finanza pubblica riempie le pagine dei giornali. Qui ricordiamo solo due numeri: deficit al 9,6% del PIL (2011), debito al 165,4% del PIL (sempre 2011, ma era al 142,7% nell’anno precedente).

 

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