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3 octobre 2013 4 03 /10 /octobre /2013 20:29
Per quello che e' successo a Lampedusa (e continuera' a succedere) I blame the states. Quella gente e' morta in quel modo perche' a loro e' stato negato il diritto di viaggiare che altri hanno. Sono gli Stati che, innalzando barriere e pretendendo visti, hanno la responsabilita' primaria di queste tragedie. Negano il diritto a viaggiare con mezzi sicuri, gettano nelle braccia di criminali profittatori esseri umani.
Come se non bastasse, durante le tragedie come quelle di Lampedusa ecco i commenti dei politici ipocriti, quelli che dicono che per "controllare l'immigrazione" (cosi' dicono) bisogna migliorare le condizioni di vita nei paesi di partenza. Ma che faccia di c... che hanno. Sono gli stessi che hanno approvato leggi di bilancio che in Italia hanno ridotto la quota di aiuti allo sviluppo alla misera percentuale dello 0,2% del PIL. Facce di c...
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26 septembre 2013 4 26 /09 /septembre /2013 06:41

Voglio dedicare qualche riga a mio padre Emanuele detto Uccio, a mio zio Carmelo detto Lino, al padre della mia compagna Marija e al nonno del figlio della mia compagna. In comune i quattro avevano il fatto di essere ragazzi, giovani buttati nel gioco delle guerre senza essere stati consultati. Mio padre fu il piu’ fortunato: studentino, dopo il corso per allievi ufficiali nei dintorni di Roma (alla Cecchignola, per la precisione), lo mandarono, sottotenente, a Nizza. Fino ad allora non era andato piu’ lontano di  ..ottanta chilomentri da casa, e invece eccolo proiettato sulla Costa Azzurra. D’accordo, c’era la guerra, e lui era un ufficiale delle truppe di occupazione, una posizione non facile. Ma dai suoi racconti desumo quale piacere provasse a esibirsi sulla motocicletta lungo la Promenade des Anglais. I resistenti erano nel maquis, nessuno lo aiuto’ quando a una curva scivolo’ per terra e fini’ con i suoi cinquanta chili sotto la stessa motovivletta che ne pesava il doppio. Dopo l’8 Settembre il suo obiettivo fu uno solo: tornare a casa, tornare cioe’ dalla mamma cui era legato da un cordone ombelicale mai reciso per davvero.

Lino, studente modello (al contrario di mio padre), vincitore di competizioni ai Littoriali e come tutti o quasi i giovani migliori allevati sotto „l’Impero“, di sentimenti sotterraneamente antifascisti (poi, sempre meno sotterraneamente) fu invece mandato, anche lui come ufficiale, in Croazia. Restavo a bocca aperta, letteralmente, a sentire i suoi racconti su quello che i cosiddetti „alleati“ ustascia facevano. Assomiglio a mio zio piu’ che a mio padre.

A Pal, padre della mia compagna, ando’ ancora peggio. Soldato anzi soldatino dell’armata ungherese che combatteva a fianco dell’Asse in Russia. Andata a Stalingrado con la certezza di battere „i bolscevichi“ e di essere aiutati dai „camerati germanici“ e ritorno da Stalingrado a piedi, senza cibo. Lui mescola realta’ e fantasia nei suoi racconti: per esempio mi dice che per proteggersi dal freddo i soldati ungheresi e italiani (non i tedeschi, cosi’ dice) sulla via del ritorno a piedi a casa arrivarono a bere benzina.

La seconda guerra mondiale fu quello che fu: un genocidio di decine di milioni di persone, per lo piu’ giovani. Ma la prima era stata una specie di prova generale di quello che sarebbe accaduto dopo. Alla prima partecipava anche Miloš, nonno del nostro Miloš. Veniva da un villaggio della Serbia centrale e anche lui non si era mai seriamente allontanato da casa. Alto, capelli neri e occhi azzurri fini’ al fronte di Salonicco (il cosiddetto „Fronte Macedone“) dove i soldati delle armate dell’Intesa furono sconfitti. Fuga verso ovest, in mezzo a banditi che depredavano i ragazzi delle poche razioni di cibo di cui disponevano e finalmente approdo a Corfu’, dove furono aiutati dalla popolazione locale amica, e poi dagli italiani che li curarono a Brindisi. Fra le tante cose che Miloš apprese fu il dovere a che fare con la scarsita’, cosa che gli insegno’ a non esagerare mai col cibo e gli permise di morire a un’eta’ piu’ che veneranda.

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12 septembre 2013 4 12 /09 /septembre /2013 18:47
Abbiamo bisogno degli Stati Uniti d'Europa. E dunque di un'Europa dove la politica e l'armonizzazione delle politiche nazionali contino per davvero, a dispetto delle posizioni di singoli Stati. E se risultasse necessario, per perseguire questo fine, rivedere la carta ci "chi ci sta e di chi non ci sta", di chi e' in Europa per sabotare la costruzione europea e non per contribuirvi e prendere le decisioni conseguenti dovremo farlo. Per chi confonde l'Unione Europea con una semplice area di libero scambio e' pronta un'alternativa: entrare a far parte dello Spazio Economico Europeo. I britannici , gli scandinavi e qualche Paese dell'Europa dell'Est sono avvisati: nessuno vi sbattera' porte in faccia, ma decidete: o dentro o fuori. E se fuori, accontentatevi dello status di cui godono Paesi come Norvegia e Svizzera. Non possiamo permettere di lasciare nelle mani di chi voglia esercitare il potere di veto o di opting out conquiste straordinarie come la libera circolazione delle persone (vedi alla voce "Accordi di Schengen") o la moneta unica. O l'Unione Europea evolvera' verso una dimensione federale, con istituzioni politiche forti ed "europee", o morira' sotto i colpi della speculazione finanziaria e delle quinte colonne che lavorano per gli interessi di oltreoceano e non per quelli dell'Europa. E questo vale per le prossime sfide, prima di tutto quella di una politica estera comune, il cui retroterra non puo' essere una politica di difesa subalterna agli interessi degli Stati Uniti (noi compriamo armi le cui tecnologie sono sviluppate da loro), ma una politica comune della difesa basata non sul la NATO ma su un sistema di difesa europeo. A proposito, da quale parte sta scritto che l'alleanza atlantica rappresenta gli interessi europei sempre e comunque? Sul fatto che rappresenti gli interessi (confusi) degli statunitensi non ho dubbi. Ma che ce ne viene a noi europei dal sostenerli sempre e comunque, e sempre incondizionatamente? Non siamo un protettorato degli Stati Uniti, al contrario in moltissimi casi i nostri interessi di europei possono trovarsi in conflitto con quelli di Oltreatlantico. Non sto affermando niente di nuovo, tutt'al piu' riecheggiando dichiarazioni di statisti certamente europei fino in fondo come De Gaulle (destra) e Mitterand (sinistra). Da loro non ho mai sentito le sciocchezze che, per esempio, ha detto (e messo in opera) Sarkozy quando ha "decretato" la reintegrazione della Francia nel comando integrato NATO o le stupidaggini di Berlusconi sull'ancoraggio al campo occidentale. Ma quale campo occidentale? Personalmente (e so che questo conta poco) mi sento piu' vicino, da latino, a un argentino o a un brasiliano che non a un danese o a uno statunitense e da culturalmente francofono a un algerino che a uno statunitebse. Fuori dall'asse Londra-New York, l'Europa di Parigi, di Madrid, di Roma (e anche di Berlino) gode di un'ammirazione che a Washington nemmeno si sognano di avere. Perche' dobbiamo sempre e comunque automaticamente essere integrati in un dispositivo che funziona sullebasi di decisioni prese a Washington e non a Parigi, Madrid, Roma e Berlino?
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4 septembre 2013 3 04 /09 /septembre /2013 14:36

Fincantieri e’ controllata al 100% da Fintecna, finanziaria il cui capitale e’ al 100% nelle mani della Cassa Depositi e Prestiti, il cui capitale e’ per il 70% nelle mani del Ministero dell’Economia della Repubblica Italiana. L’altro colosso della cantieristica navale europea, Chantiers de l’Atlantique, ha un capitale che per un terzo e’ nelle mani dello Stato francese.

Gli aiuti di Stato sono proibiti nell’Unione Europea, anche nel settore della cantieristica navale, ma senza la presenza di capitale pubblico c’e’ da dubitare che la cantieristica navale europea sarebbe ancora in piedi, di fronte alla concorrenza sudcoreana. Al di la’ di ogni considerazione possibile sulla qualita’ delle costruzioni navali del vecchio continente.

Da un mese l’Unione Europea non e’ piu’ un’Unione a 27, ma a 28. In materia di cantieristica navale quello che e’  permesso all’Italia e alla Francia non e’ pero’ permesso alla Croazia. Niente da fare:  Zagabria deve vendere i propri cantieri navali ai privati, sperando di trovarne di interessati ad investire in un settore dove la concorrenza non e’ intra-europea ma mondiale. Anzi e di piu’: l’accettazione di un piano di privatizzazione degli stessi e la messa in opera di azioni congruenti e’ stata una delle condizioni la cui accettazione ha sbloccato il negoziato sul capitolo VIII del trattato di adesione, quello che riguarda le politiche della concorrenza.

Sul litorale, i cantieri sono cinque. Da Nord a Sud, il cantiere Uljanik a Pola/Pula, il cantiere 3 Maggio a Fiume/Rijeka, il cantiere di Kraljevica, quello di Trau’/Trogir e quello Di Spalato/Split. Sulla cantieristica navale aveva puntato prima di tutto l’impero austro-ungarico, immaginando di diventare una potenza marittima se non certo del rango della Gran Bretagna ma almeno di quello dell’Italia, che peraltro proprio sul mare aveva umiliato alla battaglia di Lissa (1866). Dopo la prima guerra mondiale, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (poi semplicemente Regno di Jugoslavia) aveva comunque mantenuto le posizioni, mentre la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia i cantieri li aveva rilanciati. Sulla banchine dei porti adriatici i meno giovani ti raccontano dei tempi belli dell’era di Tito, e ti ripetono la storia e la leggenda del maresciallo che prima di diventare comunista e poi leader aveva lavorato come meccanico proprio a Kraljevica, negli anni venti. Anche questa icona fa parte della jugonostalgia, poco diffusa in Croazia, ma non assente.

A Zagabria sanno che l’adesione all’Unione Europea comporta non solo benefici ma anche costi, e devono registrare che la privatizzazione dei cantieri navali tutto e’ fuorche’ una storia di successo. Senza aiuti di Stato i cantieri navali, di proprieta’ pubblica o privata, diventano appetibili agli investitori solo se il sito che occupano e’ bello e puo’ diventare uno spazio dove costruire marinas, alberghi e centri commerciali. Come a Trau’ per esempio, dove mi fermo a bere una birra con un amico che lavora a Slobodna Dalmacija, lo storico quotidiano di Spalato. „Questi manderanno sul lastrico decine di migliaia di famiglie, non ti so dire quante, ma si tratta di decine di migliaia, dall’Istria al Quarnaro e fino qui. Avere nella propria citta’ un cantiere navale era l’orgoglio della comunita’ locale, prima del comunismo, durante e dopo. Adesso e’ un problema sociale, ma non credere troppo ai nostalgici, adesso stiamo solo pagando il prezzo di un’illusione, quella dell’autogestione dei tempi della Jugoslavia. Nelle aziende, cosi’ diverse da quelle del blocco orientale, all’apparenza ognuno diceva la sua. Un uomo un voto era la regola, ma il voto di un uomo o di una donna finiva sempre con il contare meno di quello del dirigente, che doveva essere gradito al partito, al fronte popolare e al sindacato. E che sapeva cose che nessun altro sapeva e le tirava fuori al momento del voto, uscendo sempre vincente. I privati si tengono alla larga dal settore, anche perche’ se vogliono comprare si devono addossare il 40% dei debiti. Ma mettiamo che tutto vada al meglio, e cioe’ che quegli spazi (con l’indice mi segnala dove si trovano) divengano un luna park per turisti. E poi che accadra’? Qualcuno di quanti lavoravano nel cantiere sara’ impiegato nelle nuove attivita’. Gli faranno un corso di formazione. Ma dove sta scritto che tutti noi dalmatinci dobbiamo diventare cuochi, camerieri, autisti di autobus, guide turistiche?“

Altra musica ascolto quando mi sposto di pochi metri e mi imbatto in una coppia di giovanissimi, di quelli forniti di Ipad ben esibito. Li abbordo e riprendo qualche domanda, fra quante fatte al mio amico, e ricevo da entrambi una risposta secca: „il turismo e’ una attivita’ moderna, non quella roba li’“. Ma vi pagheranno da fame e vi potranno mandare via a calci da un momento all’altro, azzardo. E loro: „e secondo te ora c’e’ qualcuno che ci paga?“.

A pagare per ora sono io. I due mojito dei ragazzi e il mio molto piu’ modesto caffe’

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26 août 2013 1 26 /08 /août /2013 18:02

Questa volta a dire sciocchezze sull'Euro non sono gli euroscettici (quelli, tutto sommato, fanno il loro mestiere). E neppure qualche sprovveduto. L'ultima sciocchezza circola in alcuni istituti di ricerca europei: l'Eurozona deve funzionare come gli accordi di Bretton Woods, sostengono. Cioe': ogni Stato entra e esce dall'Eurozona a piacimento e secondo convenienza. Prende il taxi finche' gli conviene e poi scende e prende l'autobus. Non oso immaginare quale fiducia i mercati potrebbero avere nei confronti di una moneta  ridotta ad essere solo un pivot di un sistema monetario. Ma il nodo principale, e cioe' quello di assicurare che la BCE faccia il prestatore di ultima istanza, resta, per l'appunto, il nodo da sciogliere. Il che presuppone politiche fiscali comuni, sorveglianza unica sulle banche commerciali, mutualizzazione del debito (Eurobond). Cosa che si legge anche come "solidarieta'" e come "Europa forte, Stati nazionali deboli". Per sopravvivere

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24 août 2013 6 24 /08 /août /2013 10:43
La République non ha il coraggio di ammettere che quello che e' sotto gli occhi di tutti e' vero, e cioe' che ci sono porzioni del territorio che Parigi non controlla perche' sono in mano alle mafie. Porzioni di territorio dove, violenza a parte, chiunque abbia una attivita' economica deve pagare una 'tassa' all'organizzazione criminale che controlla il territorio. Non e' solo questione di Corsica, Colombia d'Europa (e lo dico senza tema di smentita, le statistiche lo attestano) e neppure della piu' remota Mayotte. Anche porzioni del territorio della France Métropolitaine sono a rischio. Gli esperti internazionali hanno da tempo avvertito Parigi sui rischi che corre la Francia, e anche additato l'Italia (si', l'Italia che a Parigi viene guardata dall'alto in basso) e la sua lotta contro il crimine organizzato come un esempio da seguire. Per esempio con una legge sulla confisca dei beni dei mafiosi. Ma a Parigi c'e' qualcuno che preferisce che i problemi vengano nascosti sotto il tappeto ...
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15 août 2013 4 15 /08 /août /2013 07:29

Tahar e' uno dei miei (tanti) amici e colleghi che ho in Algeri. "Je ne suis pas arabe, je suis cabile" tiene sempre a sottolineare. Parla un francese perfetto, da accademia, un arabo ineccepibile, arabo 'classico' (mi dicono), uno spagnolo confuso con l'italiano, ma ci tiene a dire che la lingua che ha imparato succhiando il latte materno e' una lingua berbera. "Ce l'abbiamo fatta contro chi era sempre piu' forte di noi: romani, visigoti, arabi, turchi e per finire francesi. E ce la faremo persino in questa battaglia che segnera' il corso di questo secolo, la battaglia contro l'omologazione al modello anglosassone", aggiunge. Mio figlio era fra quanti si batterono perche' la lingua berbera venisse insegnata, a cominciare dalle scuole elementari. "Non ridere"   - mi fa, ridendo -  "ma ti dico una cosa: noi cabili stiamo agli altri algerini come gli altoatesini tedeschi stanno agli altri italiani".

Stiamo su Skype, come facciamo spesso, e io gli chiedo che cosa ne pensi di quello che sta succedendo in Siria, e di quello che sta succedendo in Egitto. "Non so risponderti, guardo quella televisione del Golfo, trop d'images, peu de commentaires. Qui abbiamo provato a stabilire un sistema a meta' fra il socialismo e il capitalismo, e non ci siamo riusciti, ma che cosa vogliano quelli del Mashrak non lo capisco. La fine della guerra fredda ci ha lasciati tutti soli, ecco quello che ti posso dire". Dalla videocamera che e' sul suo laptop intravedo solo un pezzo di cielo. Appartiene al cielo di Algeri, non a quello della Cabilia. "A Tizi-Ouzou avrei molto da fare, mi darebbero un incarico in universita', ma per ora resto in Algeri, anche se (e qui ride ancora una volta) qui mi sento come un altoatesino a Roma, mi capisci?" Cerco di spostare la conversazione sul tema dell'intreccio fra politica e rerligione nel mondo islamico. "Le religioni passano, gli uomini restano" e' il suo commento, e poi continua dicendomi che quando la ricchezza sara' meglio distribuita non vedremo piu' piazze in agitazione, ma tranquilli discorsi al caffe'. Come nelle cittadine della Berberia di una volta - chiedo? "Nonb c'e' mai stata 'una volta', mi risponde. "Nemmeno in Europa ha vinto Voltaire", conclude. E io non ho nulla da replicare.

Alla fine, e cioe' prima di definitivamente chiudere la conversazione, si rivolge a me come italiano. Per lanciarmi un messaggio, da berbero e da islamoscettico: "datevi da fare, qui in Algeria la gente si fida piu' di voi che degli altri occidentali"

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15 août 2013 4 15 /08 /août /2013 07:29

Tahar e' uno dei miei (tanti) amici e colleghi che ho in Algeri. "Je ne suis pas arabe, je suis cabile" tiene sempre a sottolineare. Parla un francese perfetto, da accademia, un arabo ineccepibile, arabo 'classico' (mi dicono), uno spagnolo confuso con l'italiano, ma ci tiene a dire che la lingua che ha imparato succhiando il latte materno e' una lingua berbera. "Ce l'abbiamo fatta contro chi era sempre piu' forte di noi: romani, visigoti, arabi, turchi e per finire francesi. E ce la faremo persino in questa battaglia che segnera' il corso di questo secolo, la battaglia contro l'omologazione al modello anglosassone", aggiunge. Mio figlio era fra quanti si batterono perche' la lingua berbera venisse insegnata, a cominciare dalle scuole elementari. "Non ridere"   - mi fa, ridendo -  "ma ti dico una cosa: noi cabili stiamo agli altri algerini come gli altoatesini tedeschi stanno agli altri italiani".

Stiamo su Skype, come facciamo spesso, e io gli chiedo che cosa ne pensi di quello che sta succedendo in Siria, e di quello che sta succedendo in Egitto. "Non so risponderti, guardo quella televisione del Golfo, trop d'images, peu de commentaires. Qui abbiamo provato a stabilire un sistema a meta' fra il socialismo e il capitalismo, e non ci siamo riusciti, ma che cosa vogliano quelli del Mashrak non lo capisco. La fine della guerra fredda ci ha lasciati tutti soli, ecco quello che ti posso dire". Dalla videocamera che e' sul suo laptop intravedo solo un pezzo di cielo. Appartiene al cielo di Algeri, non a quello della Cabilia. "A Tizi-Ouzou avrei molto da fare, mi darebbero un incarico in universita', ma per ora resto in Algeri, anche se (e qui ride ancora una volta) qui mi sento come un altoatesino a Roma, mi capisci?" Cerco di spostare la conversazione sul tema dell'intreccio fra politica e rerligione nel mondo islamico. "Le religioni passano, gli uomini restano" e' il suo commento, e poi continua dicendomi che quando la ricchezza sara' meglio distribuita non vedremo piu' piazze in agitazione, ma tranquilli discorsi al caffe'. Come nelle cittadine della Berberia di una volta - chiedo? "Nonb c'e' mai stata 'una volta', mi risponde. "Nemmeno in Europa ha vinto Voltaire", conclude. E io non ho nulla da replicare.

Alla fine, e cioe' prima di definitivamente chiudere la conversazione, si rivolge a me come italiano. Per lanciarmi un messaggio, da berbero e da islamoscettico: "datevi da fare, qui in Algeria la gente si fida piu' di voi che degli altri occidentali"

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10 août 2013 6 10 /08 /août /2013 11:28

I prati sono sistematicamente ben tosati e innaffiati. Ai bordi dei prati ci sono i fiori, li cambiano a ogni stagione e a me piacciono soprattutto quelli che spuntano all’inizio della primavera. In mezzo ai prati, boschetti di latifoglie. Sotto le latifoglie panchine. C’e’ chi vi si siede solo per riposarsi qualche minuto e chi ci resta per ore, con un libro fra le mani a leggerlo. Un trenino, di quelli che portano i turisti in giro per i centri storici, trasporta la gente da un angolo all’altro del comprensorio. Troppo vasto per muoversi a piedi. Ci vado spesso al cimitero comunale di Novi Sad, ovviamente quando sono a Novi Sad. Tra i prati, i boschetti, i vialetti sono ricavate zone dove ci sono le lapidi. Lapidi, niente cappelle gentilizie, e davanti a ogni lapide un fazzoletto di prato. Il massimo che e’ consentito, tanto per dare il segno di una differenza sociale o di capacita’ di spesa, e’ la differenza nella grandezza delle lapidi e negli ornamenti, ma i piu’ scelgono il modello standard proposto dall’azienda comunale che gestisce il comprensorio. Lapidi tutte uguali, anche se solo all’apparenza. Le guardo da vicino e mi piace scoprire che sotto il tale fazzoletto di terra ci stanno cattolici ungheresi, sotto l’altro protestanti slovacchi, sotto l’altro ancora (e sono la maggioranza) ortodossi serbi o montenegrini. Mi guidano i nomi e i cognomi e il tipo di croci.

Ci sono anche molte lapidi senza croci. Quelle di chi e’ nato e morto comunista, e jugoslavo prima che serbo o qualsiasi altra cosa: sopra il nome, o sopra i nomi, la stella rossa a cinque punte. Quelle con la stella di Davide (poche, la maggioranza degli ebrei e’ sepolta in un altro cimitero) e quelle senza emblemi, ne’ croci ne’ stelle. E’ una di queste ultime la meta delle visite della mia compagna, che mi fa piacere accompagnare, quando posso. Li’ ci sono Radissav, in vita  comunista e direttore di una zadruga (cooperativa) oltre che raffinato divoratore della letteratura francese e russa dell’ottocento e sua moglie Milena, impiegata dello Stato e scettica su tutto. Due jugoslavi veri: lui montenegrino e lei di una citta’ della Serbia al confine con la Bosnia-Erzegovina.

La mia compagna usa deridere la neoborgesia rampante nata nel disordine degli anni di Milošević. Non e’ ortodossa, ne’ cattolica, ne’ protestante, ne’ ebrea. Della religione ha un’idea vaga che sconfina nel „tutte le religioni sono uguali e tutte hanno lo stesso messaggio: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te e aiuta sempre l’altro perche’ domani potresti avere bisogno del suo aiuto“. Praticare attivamente una religione e’ invece per lei sintomo di superstizione e ignoranza condite con comportamenti esibitivi: elargizioni ben pubblicizzate di doni alla Chiesa, matrimoni in abiti sontuosi per dimostrare la propria capacita’ economica, in Chiesa a Natale e a Pasqua e mai in Chiesa nel resto dell’anno, tanto per mostrare agli altri chi si e’. Roba da neoborghesi con alle spalle fortune di dubbia origine, per l’appunto. A trovare Radissav e Milena ci siamo andati anche in questi giorni caldissimi, con un mazzo di fiori in una mano e delle candele nell’altra. Tre candele: una per Radissav, una per Milena e una per mio padre. Le accendiamo e aspettiamo che il poco di vento che c’e’ le spenga. Io prego ovvero provo a pregare, lei no.

Poi tira fuori dalla borsa due bottigliette, una di acqua una di rakjia, l’acquavite locale. „Fa caldo e hanno sete“ (e qui entra in gioco l’acqua che viene versata sul fazzoletto di prato), „che brindino alla nostra salute e che stiano in salute“ (e la rakjia, anche questa versata sul fazzoletto di prato, serve a questo).

Dai tempi del paganesimo non e’ cambiato molto, anche per gli scettici e i razionalisti. Con la morte si convive e chi e’ morto non e’ diverso da noi: anche lui ha sete

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6 août 2013 2 06 /08 /août /2013 07:16

Etihad, compagnia di bandiera degli Emirati, acquisisce il 49% del capitale di JAT e la salva (il 51% e' nelle mani dello Stato serbo, ma a decidere e' Etihad). Ora JAT, la piu' antica compagnia aerea d'Europa, sara' Air Serbia.

Olympic Air, di proprieta' del gruppo privato Marfin e erede di Olympic Airways, sta per passare nelle mani della dinamica e competitiva Turkish Airlines. E sempre in Grecia, la stessa cosa potrebbe accadere a Agean, antitrust UE permettendo. Per inciso: Agean e' gia' alleata di Turkish in Star Alliance e Turkish con queste e altre acquisizioni, potrebbe strappare a Lufthansa il ruolo di capofila dell'alleanza.

Investimenti turchi e di fondi sovrani dei Paesi del Golfo in crescita in tutti i Balcani, perche' questi non sono casi isolati.

L'economia dei Balcani risollevata dagli investimenti dei vicini sud-orientali? Probabile. Di certo greci, serbi e altri della regione non hanno piu' motivi per mantenere atavici e incomprensibili complessi di superiorita' nei confronti dei vicini

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Latitudini &Amp; Longitudini

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