Per fortuna non c’e’ solo Facebook. Per fortuna c’e’ la possibilita’ di usare altri canali per esprimersi, diversi da quella rete sociale dove inevitabilmente la ragione riesce a essere libera solo fino a un certo punto, minacciata da intrecci con vicende e sentimenti personali.
Il fatto.
Giorni fa Leonardo Spagnoletti, fra le teste pensanti piu’ brillanti della mia citta’ di origine, persona attenta ai fatti e commentatore razionale e informato di fatti, su Facebook ha scritto una frase che qui trascrivo e che non mi trova in accordo. Questa la frase, che riporto pedissequamente: „I radicali, anche se tra loro si chiama(va)no compagni, erano e rimangono estranei alla tradizione ideologica e culturale della sinistra, che in Italia si è identificata con il marxismo più o meno variamente declinato, ed erano parenti più o meno stretti invece del Partito d'Azione, del PRI, e anche del PLI”. Il contesto non era quello di un’analisi storica, la frase era lanciata incidentalmente in una discussione aperta su un tema molto circoscritto. Non voglio dunque esagerarne la portata. Mi ha pero’ colpito, e mi spinge a replicare. Come e’ mia abitudine, sempre per punti. Abitudine discutibile, ma certamente mia. Aggiungo che quello che scrivo nelle righe che seguono e’ tutt’altro che uno sforzo “scientifico”, ma tutt’al piu’ una collezione di considerazioni.
Le mie considerazioni.
La prima e’ che da quando lo spettro della politica si e’ diviso con chiarezza fra conservatori e progressisti, e cioe’ dai tempi della Rivoluzione Francese in poi (in Italia da quelli della Repubblica Partenopea) non v’e’ mai stata una sinistra (campo progressista) al singolare. Per tutto il diciannovesimo e il ventesimo secolo abbiamo avuto una sinistra (e, parzialmente, anche una destra) neanche duale, ma plurale. Provo a riepilogare le diverse culture e spinte che hanno occupato il campo progressista, da allora in poi.
Direi che la piu’ “antica” e’ stata quella del socialismo umanitario, declinata in vari modi, ma sempre decisamente estranea ai fondamenti e agli insegnamenti dell’analisi marxiana. E’ stata secondo me molto importante quasi sempre, ma raggiunse il suo apice (anche in termini di consensi popolari e di egemonia culturale) quando si saldo’ con un’altra spinta (o cultura), quella del positivismo e dell’evoluzionismo. “Siamo tutti uomini, anzi tutti esseri viventi, dunque le differenze sociali rappresentano una distorsione dell’ordine naturale, e dunque devono essere superate”. Questa spinta e’ indebolita dall’incapacita’ organizzativa dei leader della relativa area, ma e’ inconfutabile che i primi deputati socialisti eletti nel Parlamento del Regno (penso a Costa per esempio) era in questa corrente che si collocavano. Il progetto e’ di sviluppo di forme di mutualita’, in diversi campi.
Una seconda spinta viene da quella che secondo me e’ una conclusione estrema dell’individualismo liberale, appena mediata da soluzioni di tipo comunitario piu’ che societario, e comunque ostile in linea di principio a una regolazione dei rapporti sociali affidata allo Stato. E’ la spinta anarchica, che in Italia,e soprattutto in Italia Meridionale, paradossalmente (e cioe’ in contrasto con il fondamento individualista) da’ vita alle prime forme di organizzazione di massa degli esclusi.
Una terza spinta viene dal movimento risorgimentale-mazziniano. Presenta alcune analogie con le due precedenti (specialmente con la prima, ma declinata in forme piu’ ipostatizzate), ma anche significative differenze. Coltiva l’idea di popolo e di nazione come leva per la rivoluzione e l’internazionalismo come collaborazione fra popoli oppressi. Ha una tendenza al richiamo a dimensioni e motivazioni etiche prima ancora che di classe. Quest’ultimo punto, prima ancora che altri, la pone in decisa rotta di collisione con l’ordine cattolico-conservatore e quest’ultimo fatto, dai tempi della Repubblica Romana in poi, pone le premesse di un suo insediamento sociale e territoriale stabile in alcune terre dello Stato Pontificio, soprattutto in Romagna. Insediamenti che sopravvivono ancora oggi e che ancora oggi mantengono una rilevante capacita’ auto-organizzativa e rappresentano presidi fortemente identitari.
Una quarta viene dall’autoorganizzazione del movimento operaio nelle citta’ del Nord e di quello contadino soprattutto nelle zone di agricoltura capitalistica della Pianura Padana. Similmente a quanto avvenuto in Germania, e diversamente da quanto avvenuto in Inghilterra, il movimento operaio non da’ vita a un proprio partito controllato, ma si avvicinera’ progressivamente al partito della sinistra meglio organizzato, il nascente partito socialista. In Inghilterra e’ il partito che prende ordine dalle Unions, in Italia (come in Germania) accadra’ il contrario. Piu’ ancora del movimento anarchico, il movimento operaio sviluppa forme di mutualita’: il movimento cooperativo, tutt’ora forte nel NordItalia, e’ qui che ha le proprie radici. Il movimento operaio nasce come movimento antagonista, ma la sua organizzazione in sindacato e in cooperative fa emergere quadri e soprattutto dirigenti moderati. Nel Partito Socialista - non sara’ un caso - la componente di origine sindacale sara’ in maggioranza schierata sulla destra riformista.
Una quinta viene dalla sinistra radicale e repubblicana. Antisistema per ideologia (soprattutto per estremo anticlericalismo e odio verso la monarchia), si potrebbe, schematizzando ovviamente, dire che rappresenta la borghesia delle professioni liberali piu’ moderne ed anche parte del ceto imprebditoriale, soprattutto quello ostile alle barriere opposte al libero scambio internazionale. Guadagna consensi anche in certe aree del Sud, specie al tempo delle guerre tariffarie con la Francia. Ha progetti di modernizzazione e si oppone ai privilegi che lo Stato assicura all’industria del Nord, in specie a quella pesante (che non a caso si schiera decisamente a destra).
Una sesta e’ la componente marxiana, e dico marxiana e non marxista, perche’ nasce quando Marx e Engels sono ancora vivi, anche se dopo che l’esperienza della Prima Internazionale viene superata. La preoccupazione principale e’ la costruzione di un’organizzazione stabile, e di un partito come perno dell’organizzazione politica e delle organizzazioni sociali collegate. Fino al periodo del primo boom economico italiano (primo decennio del XX Secolo) e’ minoritaria. A sinistra ci sono gli anarchici, a destra (dentro lo stesso partito) riformisti e umanitari. Non riesce a controllare il movimento sindacale e operaio.
Tutte queste spinte sopravvivono ancora, e sono la ricchezza della sinistra, che puo’ attingere per la definizione dei propri programmi a tradizioni diverse. La particolarita’ italiana rispetto alla situazione inglese o tedesca (e che pone la sinistra italiana in una situazione piu’ simile a quella della sinistra francese) e’ che la sinistra italiana non e’ stata capace di costituire un partito unico, come invece nei due Paesi che citavo. E’ mancato il collante decisivo della mancanza di un “azionista di riferimento” come le Unions in Gran Bretagna per il Labour o di una burocrazia di partito con straordinarie abilita’ organizzative come la SPD in Germania.
Dopo le origini.
La mia idea e’ che in Italia le sinistre del XIX Secolo entrano con tutte le loro differenze nelle sinistre del XX. Il Partito socialista, almeno fino alla scissione del 1921, e’ il piu’ inclusivo. Al suo interno coesiste il socialismo umanitario, il socialismo marxiano (diversamente declinato), il movimento operaio. Dopo la scissione, parte degli insediamenti tradizionali passa in eredita’ al neonato Partito Comunista, ma anche dopo la parentesi fascista e la seconda guerra mondiale, il Partito Socialista (di Unita’ Proletaria) resta il partito meglio organizzato della sinistra. Il sorpasso da parte del Partito Comunista e’ piu’ effetto della Guerra Fredda che di fattori endogeni, su questo mi pare che gli storici si esprimano in modo unanime. Simona Colarizi ricorda anzi che subito dopo la seconda guerra mondiale e prima ancora che la guerra finisse gli americani puntassero molto a un’Italia governata da un partito di sinistra, puntavano molto sull’allora PSIUP, mentre a sostenere la destra monarchica erano gli inglesi. Il sorpasso avviene perche’ il PCI ha alleati stranieri mentre il PSIUP non accetta le mani tese dagli americani e si ritrova solo o dipendente dal PCI e dalle organizzazioni sociali che quest’ultimo comincia a controllare, anche per quanto riguarda le risorse finanziarie. La diversa interpretazione della rivolta ungherese prima e l’avvicinamento del PSI (ex PSIUP) alla Democrazia Cristiana da un lato e il rifiuto del PCI a partecipare al centro-sinistra dall’altro scavano un fossato fra i due partiti a prevalente tradizione marxista. Ho usato l’aggettivo prevalente non a caso, perche’ nel PSI ma anche nello stesso PCI la tradizione marxista (e il modello organizzativo a meta’ fra quello della SPD tedesca e quello leninista) non esauriscono lo spettro delle posizioni presenti. Nel PSI ad esempio dopo l’esaurimento dell’esperienza del Partito d’Azione e’ proprio una parte dell’elite azionista che vi confluisce, andandosi a posizionare nell’ala sinistra del partito (penso ai lombardiani). Il PCI si rapporta ai non marxisti con una logica da Fronte Popolare pre-guerra. Costituisce la Sinistra Indipendente e fa eleggere nelle sue liste persone che vengono dalla tradizione laico-democratica (Altiero Spinelli prima di tutto) e dal liberalismo di sinistra gobettiano (penso a Galante Garrone, per fare un esempio). Ma anche all’interno del partito la cultura marxista non esaurisce lo spettro delle posizioni individuali. La Cgil di Di Vittorio ha molta parentela con il sindacato riformista di inizio secolo, poca con altre tradizioni. Ha paura di finire controllata dai burocrati del partito e agli ordini di una potenza straniera, vuole essere azionista di maggioranza del partito, come le Unions lo sono nel Labour inglese.
Le componenti radicali e liberalsocialiste hanno un fortissimo sviluppo durante il periodo della dittatura, e contano su un’intellettualita’ di primissimo piano, con ottimi contatti internazionali e grande sostegno da parte delle democrazie occidentali. E’ la storia dei gobettiani, del socialismo liberale dei Rosselli, di Giustizia e Liberta’ e del suo ruolo primario durante la lotta armata di liberazione, del Partito d’Azione. La radicalizzazione Ovest contro Est riduce il bacino di consensi del Partito d’Azione e porta alla sua dissoluzione. Ma questa tradizione continua negli anni Cinquanta e fino a oggi. Negli anni Cinquanta l’eredita’ del Pd’A la raccolgono il Partito Radicale e il gruppo degli Amici de Il Mondo. Si tratta di nuclei di intellettuali, che pero’ conducono le sole battaglie davvero “di sinistra” che in quegli anni si possono osservare: contro i monopoli privati - “i padroni del vapore” come diceva Ernesto Rossi - , contro l’oscurantismo clericale, contro la speculazione edilizia (“capitale corrotta nazione infetta”). Sono il motore di un movimento per la modernizzazione di un Paese in ritardo. Nel 1962, quando si costituisce il primo governo di centro-sinistra, gran parte di quest’area confluisce nel PSI, parte nel PRI. Resta una sparuta minoranza che di quella tradizione raccoglie il testimone: e’ il “nuovo” partito radicale,dove tra i “vecchi” resta Ernesto Rossi. Punta a una riorganizzazione complessiva della sinistra e gioca la carta dei diritti civili, efficace in una societa’ che con il benessere ha conosciuto la secolarizzazione. Su questo secondo punto vince: e’ a questa minoranza che l’Italia deve conquiste ccome il divorzio, la sconfitta dell’aborto clandestino, il nuovo diritto di famiglia, il diritto all’obiezione di coscienza. Per esperienza diretta, da dirigente radicale, posso affermare che nei confronti della sinistra marxista questa componente nutre complessi di superiorita’ (“la sinistra siamo noi, loro sono pronti ad allearsi pure con il Papa”).
La componente repubblicana (nel senso di PRI) ha ancora oggi in alcune aree del Paese le radici ben piantate nella storia della sinistra ed una organizzazione territoriale. Con l’arrivo dal Partito d’Azione di personaggi della “destra” di quel partito, Ugo La Malfa prima di tutto, attraversa una mutazione genetica che portera’ negli anni Sessanta il PRI lontano dalla tradizione mazziniana da Prima Internazionale per essere il partito della borghesia produttiva. Penso che anche questa componente abbia fatto battaglie davvero “di sinistra”, in primis quella per il libero scambio. La Confindustria degli anni Cinquanta, la Confindustria di Costa, quella degli industriali monopolisti che vivevano all’ombra di mercati protetti, ne ha terrore.
La tradizione anarchica si indebolisce nel XX secolo e subisce colpi psicologici fortissimi soprattutto a seguito dell’esito della guerra di Spagna. In Spagna aveva insediamenti e organizzazione robusti, ma la guerra civile la stritola in un conflitto che diventa sempre piu’ fra comunisti e nazifascisti. A mio avviso rinasce nella seconda meta’ degli anni Sessanta, quando l’individualismo anarchico si esprime nelle forme e con le motivazioni derivate dalla new left olandese prima (i provos) e americana poi (il movimento beatnik e contro la guerra in Vietnam). In seguito mi pare che una parte si disperda e parte invece confluisca nell’alveo radicale, attratta soprattutto dalle posizioni antimilitariste del partito. Il PR adotta, accanto al suo simbolo storico, la Marianna della Rivoluzione francese, il fucile spezzato del make love not war.
Quello che ho scritto non ha affatto l’ambizione di essere un saggio, ci mancherebbe altro. Niente riferimenti bibliografici per esempio. Prendetelo come una benigna provocazione. E soprattutto come un modo personale per sostenere che la sinistra in Italia e’ stata e resta plurale.
Il PD e SEL incorporano molte di queste tradizioni, le diverse sinistre. L’IDV e’ un’altra cosa, secondo me con la sinistra ha poco a che spartire. Non c’e’ da vergognarsi di nulla ad essere di sinistra, al contrario rendere trasparenti i legami con tradizioni progressiste plurisecolari puo’ risvegliare l’attenzione di cittadini rassegnati e mobilitarli. Azzarderei dicendo che lo stesso vale per la destra, se di coalizione per la difesa di certi interessi collettivi e valori si tratta e non di difesa di interessi corporativi o aziendali.