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30 juillet 2012 1 30 /07 /juillet /2012 20:39

Per fortuna non c’e’ solo Facebook. Per fortuna c’e’ la possibilita’ di usare altri canali per esprimersi, diversi da quella rete sociale dove inevitabilmente la ragione riesce a essere libera solo fino a un certo punto, minacciata da intrecci con vicende e sentimenti personali.

Il fatto.

Giorni fa Leonardo Spagnoletti, fra le teste pensanti piu’ brillanti della mia citta’ di origine, persona attenta ai fatti e commentatore razionale e informato di fatti, su Facebook ha scritto una frase che qui trascrivo e che non mi trova in accordo. Questa la frase, che riporto pedissequamente: „I radicali, anche se tra loro si chiama(va)no compagni, erano e rimangono estranei alla tradizione ideologica e culturale della sinistra, che in Italia si è identificata con il marxismo più o meno variamente declinato, ed erano parenti più o meno stretti invece del Partito d'Azione, del PRI, e anche del PLI”. Il contesto non era quello di un’analisi storica, la frase era lanciata incidentalmente in una discussione aperta su un tema molto circoscritto. Non voglio dunque esagerarne la portata. Mi ha pero’ colpito, e mi spinge a replicare. Come e’ mia abitudine, sempre per punti. Abitudine discutibile, ma certamente mia. Aggiungo che quello che scrivo nelle righe che seguono e’ tutt’altro che uno sforzo “scientifico”, ma tutt’al piu’ una collezione di considerazioni.

Le mie considerazioni.

La prima e’ che da quando lo spettro della politica si e’ diviso con chiarezza  fra conservatori e progressisti, e cioe’ dai tempi della Rivoluzione Francese in poi (in Italia da quelli della Repubblica Partenopea) non v’e’ mai stata una sinistra (campo progressista) al singolare. Per tutto il diciannovesimo e il ventesimo secolo abbiamo avuto una sinistra (e, parzialmente, anche una destra) neanche duale, ma plurale. Provo a riepilogare le diverse culture e spinte che hanno occupato il campo progressista, da allora in poi.

Direi che la piu’ “antica” e’ stata quella del socialismo umanitario, declinata in vari modi, ma sempre decisamente estranea ai fondamenti e agli insegnamenti dell’analisi marxiana. E’ stata secondo me molto importante quasi sempre, ma raggiunse il suo apice (anche in termini di consensi popolari e di egemonia culturale) quando si saldo’ con un’altra spinta (o cultura), quella del positivismo e dell’evoluzionismo. “Siamo tutti uomini, anzi tutti esseri viventi, dunque le differenze sociali  rappresentano una distorsione dell’ordine naturale, e dunque devono essere superate”. Questa spinta e’ indebolita dall’incapacita’ organizzativa dei leader della relativa area, ma e’ inconfutabile che i primi deputati socialisti eletti nel Parlamento del Regno (penso a Costa per esempio) era in questa corrente che si collocavano. Il progetto e’ di sviluppo di forme di mutualita’, in diversi campi.

Una seconda spinta viene da quella che secondo me e’ una conclusione estrema dell’individualismo liberale, appena mediata da soluzioni di tipo comunitario piu’ che societario, e comunque ostile in linea di principio a una regolazione dei rapporti sociali affidata allo Stato. E’ la spinta anarchica, che in Italia,e soprattutto in Italia Meridionale, paradossalmente (e cioe’ in contrasto con il fondamento individualista) da’ vita alle prime forme di organizzazione di massa degli esclusi.

Una terza spinta viene dal movimento risorgimentale-mazziniano. Presenta alcune analogie con le due precedenti (specialmente con la prima, ma declinata in forme piu’ ipostatizzate), ma anche significative differenze. Coltiva l’idea di popolo e di nazione come leva per la rivoluzione e l’internazionalismo come collaborazione fra popoli oppressi. Ha una tendenza al richiamo a dimensioni e motivazioni etiche prima ancora che di classe. Quest’ultimo punto, prima ancora che altri, la pone in decisa rotta di collisione con l’ordine cattolico-conservatore e quest’ultimo fatto, dai tempi della Repubblica Romana in poi, pone le premesse di un suo insediamento sociale e territoriale stabile in alcune terre dello Stato Pontificio, soprattutto in Romagna. Insediamenti che sopravvivono ancora oggi e che ancora oggi mantengono una rilevante capacita’ auto-organizzativa e rappresentano presidi fortemente identitari.

Una quarta viene dall’autoorganizzazione del movimento operaio nelle citta’ del Nord e di quello contadino soprattutto nelle zone di agricoltura capitalistica della Pianura Padana. Similmente a quanto avvenuto in Germania, e diversamente da quanto avvenuto in Inghilterra, il movimento operaio non da’ vita a un proprio partito controllato, ma si avvicinera’ progressivamente al partito della sinistra meglio organizzato, il nascente partito socialista. In Inghilterra e’ il partito che prende ordine dalle Unions, in Italia (come in Germania) accadra’ il contrario. Piu’ ancora del movimento anarchico, il movimento operaio sviluppa forme di mutualita’: il movimento cooperativo, tutt’ora forte nel NordItalia, e’ qui che ha le proprie radici. Il movimento operaio nasce come movimento antagonista, ma la sua organizzazione in sindacato e in cooperative fa emergere quadri e soprattutto dirigenti moderati. Nel Partito Socialista   - non sara’ un caso -   la componente di origine sindacale sara’ in maggioranza schierata sulla destra riformista.

Una quinta viene dalla sinistra radicale e repubblicana. Antisistema per ideologia (soprattutto per estremo anticlericalismo e odio verso la monarchia), si potrebbe, schematizzando ovviamente, dire che rappresenta la borghesia delle professioni liberali piu’ moderne ed anche parte del ceto imprebditoriale, soprattutto quello ostile alle barriere opposte al libero scambio internazionale. Guadagna consensi anche in certe aree del Sud, specie al tempo delle guerre tariffarie con la Francia. Ha progetti di modernizzazione e si oppone ai privilegi che lo Stato assicura all’industria del Nord, in specie a quella pesante (che non a caso si schiera decisamente a destra).

Una sesta e’ la componente marxiana, e dico marxiana e non marxista, perche’ nasce quando Marx e Engels sono ancora vivi, anche se dopo che l’esperienza della Prima Internazionale viene superata. La preoccupazione principale e’ la costruzione di un’organizzazione stabile, e di un partito come perno dell’organizzazione politica e delle organizzazioni sociali collegate. Fino al periodo del primo boom economico italiano (primo decennio del XX Secolo) e’ minoritaria. A sinistra ci sono gli anarchici, a destra (dentro lo stesso partito) riformisti e umanitari. Non riesce a controllare il movimento sindacale e operaio.

Tutte queste spinte sopravvivono ancora, e sono la ricchezza della sinistra, che puo’ attingere per la definizione dei propri programmi a tradizioni diverse. La particolarita’ italiana rispetto alla situazione inglese o tedesca (e che pone la sinistra italiana in una situazione piu’ simile a quella della sinistra francese) e’ che la sinistra italiana non e’ stata capace di costituire un partito unico, come invece nei due Paesi che citavo. E’ mancato il collante decisivo della mancanza di un “azionista di riferimento” come le Unions in Gran Bretagna per il Labour o di una burocrazia di partito con straordinarie abilita’ organizzative come la SPD in Germania.

Dopo le origini.

La mia idea e’ che in Italia le sinistre del XIX Secolo entrano con tutte le loro differenze nelle sinistre del XX. Il Partito socialista, almeno fino alla scissione del 1921, e’ il piu’ inclusivo. Al suo interno coesiste il socialismo umanitario, il socialismo marxiano (diversamente declinato), il movimento operaio. Dopo la scissione, parte degli insediamenti tradizionali passa in eredita’ al neonato Partito Comunista, ma anche dopo la parentesi fascista e la seconda guerra mondiale, il Partito Socialista (di Unita’ Proletaria) resta il partito meglio organizzato della sinistra. Il sorpasso da parte del Partito Comunista e’ piu’ effetto della Guerra Fredda che di fattori endogeni, su questo mi pare che gli storici si esprimano in modo unanime. Simona Colarizi ricorda anzi che subito dopo la seconda guerra mondiale e prima ancora che la guerra finisse gli americani puntassero molto a un’Italia governata da un partito di sinistra, puntavano molto sull’allora PSIUP, mentre a sostenere la destra monarchica erano gli inglesi. Il sorpasso avviene perche’ il PCI ha alleati stranieri mentre il PSIUP non accetta le mani tese dagli americani e si ritrova solo o dipendente dal PCI e dalle organizzazioni sociali che quest’ultimo comincia a controllare, anche per quanto riguarda le risorse finanziarie.  La diversa interpretazione della rivolta ungherese prima e l’avvicinamento del PSI (ex PSIUP) alla Democrazia Cristiana da un lato e il rifiuto del PCI a partecipare al centro-sinistra dall’altro scavano un fossato fra i due partiti a prevalente tradizione marxista. Ho usato l’aggettivo prevalente non a caso, perche’ nel PSI ma anche nello stesso PCI la tradizione marxista (e il modello organizzativo a meta’ fra quello della SPD tedesca e quello leninista) non esauriscono lo spettro delle posizioni presenti. Nel PSI ad esempio dopo l’esaurimento dell’esperienza del Partito d’Azione e’ proprio una parte dell’elite azionista che vi confluisce, andandosi a posizionare nell’ala sinistra del partito (penso ai lombardiani). Il PCI si rapporta ai non marxisti con una logica da Fronte Popolare pre-guerra. Costituisce la Sinistra Indipendente e fa eleggere nelle sue liste persone che vengono dalla tradizione laico-democratica (Altiero Spinelli prima di tutto) e dal liberalismo di sinistra gobettiano (penso a Galante Garrone, per fare un esempio). Ma anche all’interno del partito la cultura marxista non esaurisce  lo spettro delle posizioni individuali. La Cgil di Di Vittorio ha molta parentela con il sindacato riformista di inizio secolo, poca con altre tradizioni. Ha paura di finire controllata dai burocrati del partito e agli ordini di una potenza straniera, vuole essere azionista di maggioranza del partito, come le Unions lo sono nel Labour inglese.

Le componenti radicali e liberalsocialiste hanno un fortissimo sviluppo durante il periodo della dittatura, e contano su un’intellettualita’ di primissimo piano, con ottimi contatti internazionali e grande sostegno da parte delle democrazie occidentali. E’ la storia dei gobettiani, del socialismo liberale dei Rosselli, di Giustizia e Liberta’ e del suo ruolo primario durante la lotta armata di liberazione, del Partito d’Azione. La radicalizzazione Ovest contro Est riduce il bacino di consensi del Partito d’Azione e porta alla sua dissoluzione. Ma questa tradizione continua negli anni Cinquanta e fino a oggi. Negli anni Cinquanta l’eredita’ del Pd’A la raccolgono il Partito Radicale e il gruppo degli Amici de Il Mondo. Si tratta di nuclei di intellettuali, che pero’ conducono le sole battaglie davvero “di sinistra” che in quegli anni si possono osservare: contro i monopoli privati   - “i padroni del vapore” come diceva Ernesto Rossi - , contro l’oscurantismo clericale, contro la speculazione edilizia (“capitale corrotta nazione infetta”). Sono il motore di un movimento per la modernizzazione di un Paese in ritardo. Nel 1962, quando si costituisce il primo governo di centro-sinistra, gran parte di quest’area confluisce nel PSI, parte nel PRI. Resta una sparuta minoranza che di quella tradizione raccoglie il testimone: e’ il “nuovo” partito radicale,dove tra i “vecchi” resta Ernesto Rossi. Punta a una riorganizzazione complessiva della sinistra e gioca la carta dei diritti civili, efficace in una societa’ che con il benessere ha conosciuto la secolarizzazione. Su questo secondo punto vince: e’ a questa minoranza che l’Italia deve conquiste ccome il divorzio, la sconfitta dell’aborto clandestino, il nuovo diritto di famiglia, il diritto all’obiezione di coscienza. Per esperienza diretta, da dirigente radicale, posso affermare che nei confronti della sinistra marxista questa componente nutre complessi di superiorita’ (“la sinistra siamo noi, loro sono pronti ad allearsi pure con il Papa”).

La componente repubblicana (nel senso di PRI) ha ancora oggi in alcune aree del Paese le radici ben piantate nella storia della sinistra ed una organizzazione territoriale. Con l’arrivo dal Partito d’Azione di personaggi della “destra” di quel partito, Ugo La Malfa prima di tutto, attraversa una mutazione genetica che portera’ negli anni Sessanta il PRI lontano dalla tradizione mazziniana da Prima Internazionale per essere il partito della borghesia produttiva. Penso che anche questa componente abbia fatto battaglie davvero “di sinistra”, in primis quella per il libero scambio. La Confindustria degli anni Cinquanta, la Confindustria di Costa, quella degli industriali monopolisti che vivevano all’ombra di mercati protetti, ne ha terrore.

La tradizione anarchica si indebolisce nel XX secolo e subisce colpi psicologici fortissimi soprattutto a seguito dell’esito della guerra di Spagna. In Spagna aveva insediamenti e organizzazione robusti, ma la guerra civile la stritola in un conflitto che diventa sempre piu’ fra comunisti e nazifascisti. A mio avviso rinasce nella seconda meta’ degli anni Sessanta, quando l’individualismo anarchico si esprime nelle forme e con le motivazioni derivate dalla new left olandese prima (i provos) e americana poi (il movimento beatnik e contro la guerra in Vietnam). In seguito mi pare che una parte si disperda e parte invece confluisca nell’alveo radicale, attratta soprattutto dalle posizioni antimilitariste del partito. Il PR adotta, accanto al suo simbolo storico, la Marianna della Rivoluzione francese, il fucile spezzato del make love not war.

Quello che ho scritto non ha affatto l’ambizione di essere un saggio, ci mancherebbe altro. Niente riferimenti bibliografici per esempio. Prendetelo come una benigna provocazione. E soprattutto come un modo personale per sostenere che la sinistra in Italia e’ stata e resta plurale.

Il PD e SEL incorporano molte di queste tradizioni, le diverse sinistre. L’IDV e’ un’altra cosa, secondo me con la sinistra ha poco a che spartire. Non c’e’ da vergognarsi di nulla ad essere di sinistra, al contrario rendere trasparenti i legami con tradizioni progressiste plurisecolari puo’ risvegliare l’attenzione di cittadini rassegnati e mobilitarli. Azzarderei dicendo che lo stesso vale per la destra, se di coalizione per la difesa di certi interessi collettivi e valori si tratta e non di difesa di interessi corporativi o aziendali.

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23 juillet 2012 1 23 /07 /juillet /2012 12:30

Due miei cari e vecchi    - non in senso anagrafico  -  amici, Chicco Negro e Marco Barbieri, mi hanno invitato a esprimermi sulle rivoluzioni nel mondo arabo e in particolare sulla situazione in Siria. Ho accettato il loro invito, anche perche’ la discussione fra i due, con me per un po’ assente, stava diventando davvero suggestiva. Ai loro inviti e stimoli devo la spinta a  sintetizzare quello che penso della questione. Ne ho scritto sulla mia bacheca Facebook; oggi riprendo e parzialmente riformulo quello che avevo scritto. Mi esprimo in modo molto sintetico e sono consapevole dei limiti di questa forma di espressione, “modellistica”, come dice Barbieri. Ne difendo pero’ l’utilita’, se non altro come base per porsi ulteriori domande e soprattutto per guardare ai fatti dall’interno, in un contesto arabo piuttosto che internazionale.

 1.). - Le analisi prevalenti sono molto attente alle dinamichedelle relazioni fra potenze, ma mi sembrano disattente verso le cause che hanno determinato le rivolte (poi rivoluzioni) dell’ultimo anno , cause che mi sembrano prevalentemente endogene o "regionali". 2.). - Cominciamo col porci una domanda: che cosa ha spinto le masse arabe a risvegliarsi, dal tempo della rivoluzione tunisina dei gelsomini in poi? La mia esperienza diretta del mondo arabo e la cronaca dei fatti mi suggeriscono una risposta, e una sola: il desiderio di vivere meglio, di avvicinarsi agli standard europei. 3.). - la rivolta  si e' indirizzata contro oligarchie, non immediatamente perche' non garantissero liberta' di riunione e di espressione, ma perche' ritenute (a ragione) rapaci, interessate al controllo monopolistico del potere allo scopo di mantenere il monopolio delle risorse, senza redistribuirne neppure una parte o nei casi migliori redistribuendone le briciole. 4.). - Il successo della rivolta, poi "rivoluzione" dei gelsomini ha determinato un meccanismo imitativo ("i tunisini ci sono riusciti, vuol dire che possiamo riuscirci anche noi"). 5.). - Le oligarchie contro cui le rivolte (poi rivoluzioni) si sono mosse avevano messo in piedi Stati secolari e promosso la secolarizzazione dei costumi, mantenendo al contrario uno stretto controllo statale dell'economia. Le rivoluzioni hanno dunque preso un colore che e' sembrato sempre piu' evidente: contro lo statalismo in economia (identificato come controllo assoluto delle risorse da parte di minoranze) e contro la secolarizzazione (o i suoi aspetti giudicati come eccessivi) , perche' ritenuta strumento del potere oligarchico. 6.). - il modello di organizzazione dello Stato e della societa' che si e' andato affermando come obiettivo delle rivoluzioni e' dunque un misto di economia di mercato e di ritorno alle tradizioni nel campo della morale, dei costumi e della legge. Esattamente il modello di certe monarchie del Golfo, e questo spiega il sostegno convinto e il supporto finanziario da parte soprattutto del Qatar. 7.). - Nei Paesi dove la rivoluzione si e' conclusa (o se ne e' conclusa la prima fase) si e' andati a elezioni. Vincitori ne sono usciti i partiti islamici moderati, che meglio incarnano quel mix di cui dicevo. Fatte le dovute proporzioni, i partiti dei fratelli islamici, sono simili alla Democrazia Cristiana italiana degli anni Cinquanta: liberismo in economia e rigidita' nei costumi e nelle leggi. Quello con cui un giorno dovranno fare i conti e' che lo sviluppo economico produce inevitabilmente secolarizzazione, ma questa volta dal basso, non imposta dall'alto, e dunque non contrastabile. Si troveranno, dove fra dieci dove fra venti anni, nella stessa situazione della DC italiana negli anni Settanta, che non capi' che la battaglia contro il divorzio (e altre battaglie contro i diritti civili) in una societa' diventata piu' benestante sono battaglie perdute. 8.). - La particolarita' della Siria e' che la battaglia delle masse contro l'oligarchia si intreccia con fattori religiosi, perche' l'oligarchia e' in massima parte alawita in un Paese sunnita. Alla fine, anche chi decide in linea di principio di riservarsi un ruolo di spettatore deve schierarsi. Viene in questo modo meno una risorsa che sarebbe preziosa: quella dell'esistenza di un gruppo di potenziali mediatori (per esempio la consistente ancorche' divisissima minoranza cristiana); non e' un caso secondo me che anche una citta' multiconfessionale come Aleppo, scampata per un anno alla guerra civile, sia ora anch'essa teatro di combattimenti (per non parlare di Damasco). 9.). - C'e' in questo qualcosa di simile a quello che accadde in Libano durante la guerra civile, e specialmente fra il 1977 e il 1979, quando a scambiarsi colpi (diciamo cosi') non erano cristiani e musulmani, ma musulmani sciiti e musulmani sunniti, con i primi nel ruolo di masse diseredate. 10.). - La guerra sta inevitauilmente provocando esodo di popolazione verso il Libano. Non e' la prima volta che nella storia del Levante un afflusso di rifugiati determina destabilizzazione degli equilibri di un Paese in sempre precario equilibrio interconfessionale. Speriamo bene. Per il bene del Libano, terra che mi e' oltremodo cara.

Marco Barbieri mi ha poi contestato l’applicabilita’ di questo modello al caso del Bahrein, e indirettamente l’utilita’ del modello stesso. Io penso che ogni modellizzazione abbia tutti i limiti della semplificazione. Serve piu' che altro a sollevare ulteriori interrogativi piu' che a fornire certezze interpretative. O almeno come tale personalmente la intendo e ne faccio uso.  Nel merito, confesso di avere qualche dubbio sul modello stesso, e mi stupisce che questi dubbi non siano stati sollevati dai miei due interlocutori. Ne’l’uno ne’ l’altro hanno  attaccato la mia "modellizzazione" su quello che mi sembra invece il principale punto di debolezza, e cioe' l’assegnare troppa importanza a fattori economico-sociali, e di striscio a fattori socio-culturali, e poca o nulla a fattori strettamente culturali o spirituali.

Ma veniamo ora al Bahrein, per capire se il contesto specifico sfugge o meno alla "modellizzazione". Riassunto preliminare. Il Bahrein e' stato il primo Stato del Golfo ad avere esaurito le proprie riserve di greggio, dopo essere stato il primo ad averle sfruttate massivamente. La questione della riconversione dell'economia da oliocentrica a diversificata si e'posta dunque con largo anticipo rispetto a tutto il resto dell'area. Alla meta' degli anni Sessanta, quando Dubai era solo la vecchia citta' di impronta arabo-portoghese di sempre, Manama era gia' una citta' moderna, tollerante e pluralista. La Corniche di Manama era animata e piena di segni di opulenza quanto quella di Beirut prima della guerra civile. Con largo anticipo su altre monarchie del Golfo, quella del Bahrein ha giocato la carta della terziarizzazione dell'economia. Carta ben giocata, che ha portato non solo al mantenimento degli standard di vita conseguiti nella fase oliocentrica, ma a un loro incremento. Il problema e' che i dividendi del conseguito (anzi consolidato) benessere non sono stati redistribuiti. Negli altri Paesi del Golfo la rendita petrolifera e' stata redistribuita secondo una logica che oserei chiamare da "socialdemocrazia dall'alto": welfare e istruzione superiore (anche all'estero) gratuita per tutti in nome di obiettivi di stabilita' sociale. Nell'arcipelago no, o almeno non nella stessa misura. Si e' creato cosi' uno iato fra la maggioranza della popolazione e una minoranza. Sotto questo profilo la situazione non e' diversa da quella di altri Paesi del mondo arabo: da una parte un'oligarchia, dall'altra tutti gli altri. Certo, la condizione dei "poveri" in Bahrein non e' nel modo piu' assoluto paragonabile a quelle dei poveri nei Paesi del Maghreb, ne' tanto meno dei poverissimi in Egitto. Ma il paradigma "rivolta dei poveri contro una oligarchia" regge, anche se bisogna riconoscere che in fatto di diritti politici l'oligarchia del Bahrein e' stata sempre piu' illuminata.E adesso immaginiamo di stare sul ponte autostradale che collega la terraferma saudita con l'arcipelago. Nel fine settimana. Il traffico e' intensissimo, in direzione dell'arcipelago. I sauditi (sunniti wahabiti) cercano (e sanno di trovare) nell'arcipelago quello che a casa non hanno: atmosfera rilassata, cantanti libanesi, bei ristoranti internazionali, contatti con stranieri, il grande circo della formula 1 e altre cose che qui non cito. Trovano quello che cercano, e per questo tornano e ritornano in un Paese che e’ la Montecarlo della penisola arabica, cosi’ come Dubai ne e’ la Singapore. Cercano e trovano cose che invece la maggioranza dei cittadini dell'arcipelago non puo' permettersi altrettanto agevolmente. E questo e’ un elemento che rafforza le tensioni. Le tensioni sono complicate dall'elemento religioso: la maggioranza meno affluente della popolazione e' sciita, ma la monarchia e' sunnita. Una situazione simile a quella della Siria, a parti invertite pero' e in un contesto certamente molto piu' democratico e da non sopravvalutare. Un ulteriore elemento racchiude un potenziale di tensione: la maggioranza sciita ha condizioni di vita piu' modeste di quelle di tanti stranieri, per esempio dei direttori di banca o dei direttori di albergo o ristorante immigrati dal Libano, o dei medici e dei professori immigrati dalla Palestina. Anche nel caso del Bahrein le analisi prevalenti (almeno in Occidente, ma anche in Russia) mettono l’accento sulla dinamica delle relazioni fra potenze. Non credo che sia un elemento da sottovalutare,  e d’altra parte non e’ un caso se nella fase piu’ critica nell’arcipelago siano intervenuti i Sauditi e che lo abbiano fatto per scongiurare una saldatura fra l’elemento sciita locale e lo sciita Iran. Io resto invece piu’ convinto che i fattori endogeni meritino molta piu’ attenzione: per capire quello che succede in questo (come in qualsiasi altro) angolo del mondo credo sia innanzi tutto utile capire interessi, disagi e aspirazioni di chi ci vive

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17 juillet 2012 2 17 /07 /juillet /2012 10:29

Se bene ho capito, quando il leader dell’UDC parla di „temi etici“ si riferisce a diritti riconosciuti nella gran parte dell’Europa ma non in Italia. Omette solo di sottolineare questa ennesima anomalia italiana, anzi pare che la rivendichi come anomalia positiva. Esclude che tali temi possano essere oggetto di trattative nella costruzione di alleanze politiche. A modo mio gli do ragione: non devono essere oggetto di trattative, perche’ non di oscuri „temi etici“ si tratta, ma di inalienabili diritti dell’uomo in quanto essere vivente, prima ancora che dell’uomo come cittadino. Il diritto di ciascuno di decidere con chi e come costruire il proprio futuro non ha niente a che fare con il modesto confronto fra partiti, e’ un diritto che non ha da essere discusso ma semplicemente riconosciuto, per quella parte che riguarda i suoi riflessi sulla sfera di quanto ha per forza di cose da essere disciplinato per legge. Questione di diritti umani e percio’ civili, ma anche di diritti sociali: perche’ mai l’accesso a questo secondo tipo di diritti dovrebbe passare attraverso un filtro che discrimini in base al sesso o alle preferenze sessuali, alla religione, alle convinzioni morali? Questione anche economica, per stare terra-terra. Escludere una parte dei cittadini dal godimento di questi diritti comporta da parte della societa’ rinuncia (parziale e in certi casi totale) al contributo che essi danno al benessere collettivo, ovvero esclusione degli stessi dalla posssibilita’ di contribuire al benessere collettivo. Spreco di risorse. Considerarli cittadini di seconda serie equivale a negare un principio base del corretto funzionamento dell’economia, l’eguaglianza dei punti di partenza fra i diversi soggetti, siano essi a diverso titolo produttori e/o consumatori.  Eguaglianza dei punti di partenza che e’ principio di efficacia e di efficienza.

In gran parte del resto d’Europa queste cose non si discutono neppure (altro che essere oggetto di possibili o negate trattative fra parti politiche!): semplicemente sono parte del patto naturale fra esseri umani su cui si regge la societa’, del patto fra cittadini su cui si regge il funzionamento dello Stato, del patto sociale fra soggetti economici su cui si regge il funzionamento dell’economia. Punto e basta.

Le cronache di questi giorni attirano la mia attenzione anche su un secondo fatto: gli attacchi alla presidente Bindi. Sulla volgarita’ e il provincialismo culturale di quel tipo di attacchi concordo con i giudizi del segretario Bersani. Come faccio pero’ a dimenticare che la presidente, tradendo anche il suo ruolo di presidente e dunque di soggetto super partes, non ha messo ai voti la risoluzione proposta da Paola Concia sui matrimoni fra soggetti dello stesso sesso?Lasciamo stare, per dirla con le parole che mi suggerisce un amico. E sia, lasciamo stare, accontentiamoci di restare un Paese anomalo, immaturo, e che gioca contro se stesso.

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21 juin 2012 4 21 /06 /juin /2012 09:56

Vi propongo un gioco; e’ probabile che il risultato sia un campionario di luoghi comuni e pregiudizi, ma anche se cosi’ fosse, sarebbe comunque un’informazione. Regole del gioco. Andate in fondo a questo articolo e cliccate sul tasto „per lasciare un commento“. Utilizzate lo spazio a disposizione per scrivere che cosa vi viene in mente quando pensate ad altri popoli, vicini, lontani o lontanissimi. Avete a disposizione fino a un massimo di cinque parole, ma non e’ necessario che ci siano aggettivi. Per esempio: Scozzesi: gonnellino (una sola parola e niente aggettivi). Fino a cinque parole per ogni popolo che vi viene in mente, dunque. Il gioco serve per avere una traccia su come noi italiani percepiamo gli altri, certo non come gli altri sono oggettivamente. Avvertenza: i messaggi sono filtrati dal moderatore, che non pubblichera’ messaggi razzisti o sessisti. Neanche se sottoposto a tortura ...

Dite la vostra. Sul blog, in fondo a questo pezzo. Si vince qualcosa, ma niente premi in denaro o in natura. Vi spiego dopo che cosa.

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18 juin 2012 1 18 /06 /juin /2012 10:20

Una bella soddisfazione per l’orgoglio nazionale greco. Ieri si e’ votato, sapendo che per una volta tutti i Paesi dell’Eurozona, anzi tutti Paesi dell’Unione Europea, anzi il mondo intero stavano trattenendo il respiro in attesa dei risultati. Il destino del mondo nelle mani di nove milioni di persone, „vuoi mettere?“. Qualche commento sui risultati, „dall’interno“.

Prima osservazione. Il voto si e’ molto piu’ polarizzato che non all’appuntamento dell’esercizio vano di poco piu’ di un mese fa. Fuga dai partiti minori.

Seconda osservazione. Nea Dimokratia (accento sulla seconda i) vince e incassa dieci punti percentuali di consenso in piu’ rispetto alla tornata precedente. Vince soprattutto in provincia, dove i ceti sociali piu’ colpiti dalle misure di austerita’ hanno un’incidenza percentuale molto minore che nelle grandi citta’. ND vince nella Grecia profonda, dove lo scenario di un’uscita dall’euro e’ stato percepito come rischio di addio agli aiuti dei fondi strutturali. „Niente piu’ aiuti per rifarmi la casa“, osserva sinteticamente Aris, mia vecchia conoscenza e piccolo agricoltore di Xanthi, Nordest del Paese; „e secondo te avrei dovuto votare contro Samaras?“ mi dice al telefono. „Vince il partito conservatore“, cosi’ ha commentato la gran parte dei media internazionali. In realta’ ha vinto un partito che piu’ che ai partiti conservatori europei assomiglia alla Democrazia Cristiana italiana degli anni Sessanta: lasciateci lavorare, votate per noi, staremo tutti meglio. C’e’ una contraddizione fra il messaggio di ND in provincia e la sua linea di adesione al rigore paneuropeo, ma le centinaia di migliaia di persone come Aris non la colgono.

Terza osservazione. Syriza sostituisce il PASOK nel ruolo di principale partito della sinistra. Commentare dicendo che la sinistra si radicalizza, che diventa massimalista, vuol dire secondo me aver capito poco della Grecia. Syriza ha semplicemente occupato uno spazio naturale da quarant’anni controllato dal PASOK, dove conta molto l’orgoglio nazionale, se non il nazionalismo. Il fatto e’ che in un Paese dove la destra e’ stata per decenni (prima, durante e dopo la parentesi della dittatura) espressione degli interessi stranieri non si puo’ essere a difesa degli intefressi nazionali e allo stesso tempo stare a destra. Le somiglianze fra Syriza e il PASOK della fine degli anni Settanta sono notevoli, anche se a Tsipras manca il carisma di Andreas Papandreou e i legami internazionali che quest’ultimo aveva, per esempio con i leader del movimento dei non allineati. Syriza e’ anche altro, e cioe’ un veicolo del disagio delle classi urbane, per esempio. Soprattutto della medio-piccola borghesia impoverita e massimamente dei suoi figli. Strati sociali che non hanno contatti con il movimento sindacale controllato dal Partito Comunista, che e’ invece espressione di una disciplinata classe operaia (piccola, ma tutt’altro che inesistente). Staremo a vedere come sono andate effettivamente le cose quando avremo disaggregazioni territoriali del voto; la mia sensazione e’ che Syriza abbia  raccolto consensi soprattutto nei quartieri della piccola borghesia delle grandi citta’. Ha votato per Syriza anche quella parte dei greci che negli anni belli aveva raggiunto un tenore di vita europeo, viaggi all’estero e scuole per i figli all’estero, e che oggi non riesce ad arrivare alla fine del mese.

Quarta osservazione. Il PASOK e’ schiacciato su posizioni che in Italia chiameremmo riformiste. Da Simitis in poi, la classe dirigente del partito ha seguito quella strada, che la base ha seguito fin tanto che duravano i tempi belli. Ma il cuore della base e’ altrove, e i tempi brutti di oggi non possono che portare al divorzio fra la base e la classe dirigente del partito. E cosi’ la base si trova, inevitabilmente, a preferire Syriza. E il partito e’ in caduta.

Quinta osservazione. Nei quartieri popolari delle grandi citta’ il voto sembra dividersi fra i comunisti e i neonazisti. Come nelle banlieues francesi, come nelle periferie delle citta’ italiane del Nord. Il Partito Comunista ne soffre, e infatti ora e’ sotto il 5%. Ma il tema della criminalita’ e’ entrato nel dibattito politico, e non ci si puo’ limitare a esorcizzarlo. Si intreccia con quello della caduta del tenore di vita e con quello della protesta contro gli stranieri che si starebbero comprando la Grecia a prezzi di saldo. L’estrema destra passa all’incasso.

Sesta osservazione.  Che cosa siano i Greci Indipendenti e’ ancora da capire. Io, almeno, fatico molto a capirlo. Quello che invece capisco e’ il carattere di EDA, la Sinistra Democratica Unita. Nonostante la drammatizzazione di questo appuntamento elettorale, EDA esce discretamente dalla competizione. Ha un progetto probabilmente illuminista, ma non e’ male che una percentuale tutt’altro che trascurabile di elettori abbia scelto chi non dice che questo mondo e’ il migliore dei mondi possibili e neppure che questo mondo bisogna rovesciarlo. Che abbia scelto l’impegno per il cambiamento.

 

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16 juin 2012 6 16 /06 /juin /2012 10:35

Aspen, Colorado, sta agli Stati Uniti come Davos, Grigioni, Confederazione Elvetica, sta all’Europa. Toutes proportions gardées ovviamente, perche’ il Colorado non e’ i Grigioni e gli Stati Uniti, anzi il Nordamerica, non sono l’Europa. E perche’ gli americani, per quanto si sforzino di tornare a sentirsi euroamericani, restano sempre molto americani e poco europei.

Proprio a Aspen, nella settimana appena trascorsa, si e’ tenuta Food and Wine Classic. Cinquemila persone provenienti dai diversi angoli del subcontinente nordamericano hanno pagato 1.185 dollari, non proprio un niente, per esserci. Piu’ spese di viaggio e spese di soggiorno. La manifestazione voleva essere un appuntamento con il cibo di qualita’, e rispetto agli standard nordamericani si puo’ dire che il risultato e’ stato raggiunto. Gia’, gli standard nordamericani. Il che significa che, anche quando si va ben al di la’ dell’idea che il cibo serve a far passare la fame e basta, e quando si sta di molte spanne sopra il junk food, il cultural divide rispetto al mangiare europeo, per non parlare rispetto al cucinare e mangiare mediterraneo, resta profondo come un canyon (diciamo cosi’, visto che si parla di una manifestazione che si e’ tenuta in Colorado).

Ed ecco una delle star della kermesse, un certo Tim Love (ma era un nome vero o un alias?), che si produce in cose diciamo mirabolanti come un normale marinare la bistecca prima di sbatterla sul barbecue. Bistecca che avrebbe reso molto di piu’ se finemente tagliata in pezzettini o in julienne, e soprattutto non cremata (nel senso di immolata) sulla brace ma saltata in padella o cotta in umido con ortaggi selezionati preparati a parte e tenuta tiepida dentro un paiolino alimentato da una spiritiera, tipo fondue bourguignonne. Il signore si presenta al lavoro sicuro di se’ di fronte ai fotografi, con cappello a tese larghe, tipo John Wayne nel vecchio Ombre Rosse.

Ed ecco lo sponsor della manifestazione, un famoso brand di mayonnaise in barattolo di proprieta’ di una multinazionale famosa appunto per via di condimenti in barattolo, piatti pronti surgelati adattissimi a professionisti dello scongelamento in forni a microonde e ... detersivi. Vuol rifarsi il vestito la multinazionale. E spende soldi per convincere che la sua mayonnaise e’ naturale (e ci mancherebbe altro), e cioe’ che e’ fatta con uova e grassi rigorosamente vegetali (quali grassi?). Promette di piu’, anzi, e cioe’ che le uova proverranno rigorosamente da galline non chiuse nelle stie. Accidenti, che progresso ...; intanto, di biologico neanche a parlarne. La manifestazione prosegue, fra pubblico adorante cuochi alle prese con ingredienti fatalmente iperproteici e abbastanza calorici, mentre qualcuno pensa alla mayonnaise spalmata in sandwich con il bacon. La stessa della marca che sponsorizza la kermesse. I cattivi pensano: questa manifestazione e' un po' come una campagna per la protezione degli uccelli sponsorizzata da un'associazione venatoria.

Piu’ di mille dollari per partecipare a questa festa. Piu’ viaggio, soggiorno e argent de poche. Ma non si potevano meglio spendere per una settimana in Italia Meridionale, in Turchia o in Libano, cosi’, tanto per capire che cosa significa cucinare e mangiare bvene, a partire da ingredienti poveri e non da mayonnaise in barattolo e bistecche di manzo? Sai che soddisfazione, per gli occhi e per il palato sono le decine di  antipastini baresi, i meze di Istanbul e quelli di Beirut? E che soddisfazione puo’ dare  imparare che quando si mangia si ha da stare seduti, e restare a tavola per tutto il tempo possibile, senza mai avere fretta.

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5 juin 2012 2 05 /06 /juin /2012 11:18

Nell’Italia con il tasso di disoccupazione che sfiora l’11%    - comunque circa la meta ’ di quello spagnolo e inferiore a quello francese (ma Oltralpe il tasso di attivita’ e’ piu’ alto di quello italiano) -    ci sarebbero oltre 630.000 posti di lavoro che l’offerta non riesce a coprire. Lo rileva una ricerca della Fondazione Hume per La Stampa. La fondazione ha lavorato sul database Excelsior di Unioncamere e su dati del Ministero del Lavoro. Non e’ la prima volta che una ricerca rileva mismatch fra domanda e offerta di lavoro in Italia. La novita’ in questo caso e’ che lo squilibrio non si concentra in attivita’ a alta intensita’ di tecnologia o di ricerca, e neppure ad alta intensita’ di capitale. Lo squilibrio fra domanda e offerta non sembra chiamare in causa, come spesso in passato, la insufficiente offerta di ingegneri o di qualifiche specializzate di tipo tecnico. Questa volta emerge che l’Italia ha bisogno di lavoratori relativamente a media o bassa qualifica: personale di cucina e sala nei ristoranti, personale di ricevimento negli alberghi e naturalmente badanti (siamo un Paese invecchiato, questo c’era da aspettarselo). E questo mentre nelle imprese del settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione cresce il numero di disoccupati e cassintegrati.

Nei Paesi di nuova industrializzazione e nei Paesi dell’Europa Orientale che hanno attratto consistenti investimenti diretti esteri si cercano ingegneri, saldatori, tornitori, ma anche direttori del personale, addetti a marketing e vendite. Nell’Italia invecchiata che da oltre dieci anni procede a passo lento, tanto lento da rischiare di fare passi indietro (ha cominciato a farne) si cercano cuochi, camerieri, personale di servizio non qualificato. Come negli anni Cinquanta, ma prima del boom.

 

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Dati sui tassi di disoccupazione nei Paesi industrializzati (2010; fonte: OCSE)

 

 

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31 mai 2012 4 31 /05 /mai /2012 12:31

Lo dico chiaro e senza giri di parole: personalmente voglio che la parata del 2 Giugno si tenga. In quel giorno celebriamo la nascita della Repubblica (e quindi la fine della Monarchia), il primo giorno nella storia italiana in cui tutti ebbero il diritto di votare (le donne per la prima volta), il coronamento del Primo e del Secondo (la Guerra di Liberazione) Risorgimento. E’ il giorno in cui le Forze Armate si inchinano alle istituzioni repubblicane, non quello di una festa militarista. La solidarieta' con chi e' stato colpito dal terremoto si manifesta rimboccandosi le mani, mettendo mano al portafoglio, manifestando "simpatia" (nel senso etimologico della parola, e cioe' soffrendo insieme) per chi ha perso la casa e un affetto, esigendo efficacia e efficienza della macchina della Protezione Civile. Questo non significa che si debba buttare alle ortiche la celebrazione della festa nazionale. Uno Stato serio aiuta i cittadini in difficolta' perche’ questo e’ uno dei suoi doveri,ma non dimentica di celebrare gli eventi che ne hanno permesso la nascita. Per me il 2 Giugno e' come il 14 Luglio per un francese, non un giorno qualunque. In Francia a nessuno verrebbe in mente l'idea di non celebrare il 14 Luglio nel caso parte del Paese fosse colpita da un evento tragico. Mettere la sordina a una festa nazionale per ribaltare il senso della storia: e’ questo che, questa volta travestiti da pacifisti o da alfieri della sobrieta’, i revisionisti vogliono. Io non conto niente, ma questo disegno non e' il mio. E sono sicuro di non essere solo

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28 mai 2012 1 28 /05 /mai /2012 20:34

Non mi piace quell’Italia che pensa che tutto quanto sta al di la’ delle Alpi sia meglio di quanto sta al di qua. Provinciale. Allo stesso modo mi irritano quegli italiani che si comportano come se nulla di importante accada se non nello spazio compreso fra le Alpi e il Lilibeo, i giornali e i telegiornali che mettono in prima pagina i rumors di Palazzo e la cronaca nera, gli imprenditori che non si danno da fare per andare a cercare opportunita' in tutto il mondo, i ragazzi senza lavoro che non accettano di spostarsi dove il lavoro c'e', gli italiani che si isolano dal resto del mondo rifiutandosi di imparare le lingue, eccetera eccetera. Mi irrita quel tipo di Italia, autarchica e per questo suicida. Mi piace l'Italia coraggiosa, che guarda al mondo e mette alla prova le proprie capacita', uscendone spesso premiata. Commentando su facebook l’articolo di Matteo Tacconi sul nuovo stadio di Varsavia,  Renato Orso, una delle colonne portanti di Estovest, la rubrica in onda su Raitre alle undici di mattina della domenica, ci informa che tutte le numerosissime strutture in acciaio e la copertura sono state fatte da una ditta italiana, di Pordenone. Ecco, questo e’ un esempio dell’Italia che mi piace e cui sono fiero di appartenere. Un’Italia che mette un pezzo di se’ in un’opera bella e imponente, che sara’ usata per un evento importante, nel Paese piu’ dinamico d’Europa. Un’Italia che distoglie lo sguardo dal proprio ombelico per guardare al mondo. Per fortuna di Italie cosi’ ce ne sono molte.

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25 mai 2012 5 25 /05 /mai /2012 10:38

Io non ci volevo venire. Ma alla fine mi sono rassegnato: e’ sabato e non avevo niente di speciale da fare altrove. Nel giardino della casa dell’amico che mi ha invitato, 45 anni, relativamente arrivato e relativamente rampante, siamo in molti. Non riesco a contare con precisione, penso tra i 150 e i 200, bambini inclusi. C’e’ una specie di podio allestito sotto una tenda (beh, tutti guardano film americani) dove si esibisce una cantante di turbo-folk. Capelli tinti biondo platino e seni attraenti, ma ricostruiti (anche se bene). Capannelli di invitati dove si discute delle solite cose. Le stesse di cui si discuterebbe se fossimo a New York, a Londra o a Roma. Molta rakija, un po’ di vino bianco, qualche cocktail analcolico. Olive e tartine. La promessa avra’ non meno di quindici anni meno di lui, e’ in un abito bianco virginale lungo e non mi sembra molto a proprio agio nel ruolo di prossima padrona di casa. Tranne che quando si avvicina a me, raggiante perche’ puo’ sfoggiare il suo piu’ che buono italiano.

Arriva il matičar, che poi e’ il funzionario del Comune che celebra i matrimoni. Introdotto da qualche nota del complessino elettrificato che accompagna la bionda cantante. Rito veloce e poi applausi da parte degli invitati.

Guardo le loro facce. Secondo la mia interpretazione, i piu’ stanno pensando che adesso viene il bello. Cioe’ si comincera’ con polpettine, tranci di pizza rustica, urnebes, kajmak, fette di prosciutto crudo. E poi  - pensano, o almeno a me sembra che pensino cosi’   -     maiale allo spiedo e insalate di tutti i tipi.

Le previsioni si rivelano sbagliate. Su un lunghissimo tavolo self-service vengono depositati piattini che piu’ che al cibo fanno pensare a decorazioni floreali. Sushi. La stragrande maggioranza nemmeno si avvicina al tavolo: „e’ un altro antipasto, il bello verra’ dopo. Per ora mi mantengo leggero“. E invece dopo il Sushi niente. Anzi no, altro sushi.

La musica e’ ad alto volume e quindi non riesco ad indagare, ma immagino che gli stomaci degli invitati semidigiuni stiano reclamando. Fatto sta che a poco a poco accade qualcosa di nient’affatto comune nelle feste di matrimonio, che di solito durano ore, ore e ore ancora. Con discrezione comincia la diaspora, ingentilita da scuse tipo „dobbiamo tornare a casa, i bambini sono soli“ e dalla consegna con le buste che contengono somme in euro, regali di nozze. Anche io ho fame e quindi mi unisco alla diaspora con il progetto di rifugiarmi in un ristorante vicino con i classici arrosti alla griglia. Al ristorante non sono da solo, almeno la meta’ degli invitati si e’ rifugiata qui. Chissa’ se in questo momento lo sposo poche-idee-ma-confuse (turbo folk e sushi) si sente solo. E chissa’ dove andra’ a finire tutto il sushi non mangiato. I camerieri in costume non credo se lo porteranno a casa. Nel frattempo noi ci godiamo cose semplici tipo spiedini alla griglia, insalate e pane caldo appena sfornato. A proposito: in quanti saranno rimasti la’ fino al momento del taglio della torta?

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