Il gatto prigioniero, il fumo e l'arrosto.
C'è il gatto, nel cofano motore della Toyota parcheggiata all'angolo di Via De Rossi con Via Crisanzio, in una Bari frettolosa e incurante, alle nove di sera, dei flebili miagolii del povero felino prigioniero.
Tre giovani, due ragazzi e una ragazza, si aggirano intorno alla vettura, e guardano sotto la carrozzeria e tra le ruote, prima di localizzare la provenienza dei lamenti gatteschi; saluto i miei giovani colleghi e mi aggrego alla consorteria dei ricercatori dalle facce pulite e ansiose: cosa è accaduto ? avete perduto un orecchino della ragazza ? No, c'è un gatto sotto o dentro la macchina. Mi fermo, ammirato di tanta giovanile sensibilità; e tendo l'orecchio, identificando, con i tre giovani, la provenienza: il gatto è nel vano motore.
Ci guardiamo intorno, nella improbabile attesa di un ritorno improvviso del proprietario della vettura; ma non si fa vivo nessuno. Osservando meglio la carrozzeria blu dell'autoveicolo, scorgiamo un adesivo bianco, di ridotte dimensioni, appiccicato sulla parte alta della portiera sinistra della Toyota: "C'è un gatto nel cofano anteriore". Un'anima gentile, ma il biglietto è troppo piccolo; e il proprietario della Toyota, forse non lo vedrà.
E allora tiro fuori dalla borsa un foglio intestato e, sulla pagina retrostante, scrivo,
a grandi caratteri: "Attenzione !!! C'è un gatto nel cofano motore !!!". E lascio il foglio, come un verbale di contravvenzione, sopra il parabrezza (che visibilmente necessita di un potente getto di acqua saponata, al più presto)..
I tre ragazzi (che hanno probabilmente la metà degli anni di mio figlio) mi chiedono se sono originario di Roma o di Napoli (per via della parlata. che non richiama esattamente provenienze friulane o altoatesine); "no, ragazzi, sono originario della provincia di Foggia. Ma nessuno è perfetto". Sorridono, e ci salutiamo. Li guardo andar via; so che, terminati gli studi, andranno via da Bari, città dove i gatti lamentano la loro prigionia e gli automobilisti non lavano il parabrezza.
La mattinata era cominciata con un paio di grida nell'ufficio notifiche, dove uno scamiciato energumeno, rosso in volto, inveiva contro gli ufficiali giudiziari (ho pensato ad un pignoramento della casa; ennesima, sventurata catabasi di questi tempi venati di disperazione e di miseria incombenti); impiegati, avvocati e segretarie, tutti fermi, mentre l'uomo inveiva. Sono intervenuto, figuriamoci, nel dire all'urlatore che non serviva imprecare, e che l'ufficio doveva continuare l'attività lavorativa che giustificava la sua apertura e la nostra presenza, e che poteva dire le stesse cose, a bassa voce, al capo dell'ufficio, sedente qualche porta più in là. Non mi accoltellava e non mi mandava al diavolo, ma seguiva il mio invito e la ricezione degli atti da notificare poteva proseguire.
I presenti più giovani occhieggiavano, sorridendo, con la nota, malcelata ironia: come potremmo frequentare aule, corridoi e uffici del palazzo di giustizia, senza le sporadiche incursioni piratesche (e talvolta risolutive) di questo anziano signore, cui nemmeno la barba bianca ha propiziato la via regale del silenzio menefottista ?
Perché nessuno di loro sa che, in tasca, al posto di una bella, risolutiva beretta calibro 9 lungo, ho soltanto un accendino, come il reduce di "Gran Torino" (anche se con dieci centimetri di statura in meno).
E, come il reduce dalla Corea, non ho mai fumato in vita mia; né fumo, né arrosto.
I reduci, si sa, sono tutti vegetariani. .
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